E' legittimo agganciare l'affitto degli immobili pubblici al reddito dell'inquilino
Corte costituzionale – sentenza 264/05 (depositata il 7 luglio 2005) – Sono costituzionalmente legittime le leggi 724/94 e 507/95. Il canone può essere raddoppiato o quintuplicato a seconda della retribuzione dei componenti del nucleo familiare
Aumento del canone annuo di locazione degli immobili di proprietà dello Stato concessi ai privati, nessuna discriminazione. Così la Corte costituzionale con la sentenza 264/05 (depositata ieri, 7 luglio 2005, redatta da Paolo Maddalena e qui leggibile nei documenti correlati) ha dichiarato legittimo l’articolo 32 commi 1, 2 e 4 della legge 724/94 e l’articolo 5 comma 7bis del decreto legge 415/95 convertito con modifiche nella legge 507/95.
A sollevare la questione ero stato il Tribunale di Ancona nel corso di un processo civile per il pagamento di canoni di locazione ed oneri condominiali non corrisposti, intentato dal ministero della Giustizia nei confronti di un’inquilina residente nell’appartamento di sua proprietà ad Ancona. In particolare, il remittente dubitava della legittimità dell’articolo 32 della legge 724/94 nella parte in cui stabilisce un aumento del canone di locazione degli immobili di proprietà dello Stato, prendendo a riferimento il reddito del nucleo familiare del conduttore nel 1993 e prevedendo che se in quell’anno la retribuzione fosse compresa tra 40 e 80 milioni il canone venisse raddoppiato e quintuplicato se superiore agli 80 milioni. Sarebbe, infatti, violato, sempre ad avviso del giudice monocratico, il principio di eguaglianza poiché, pur essendo i rapporti di locazione stipulati con lo Stato assoggettati alla disciplina di diritto privato, l’articolo 32 stabilirebbe solo per gli immobili locati a privati una moltiplicazione del canone. Differenziando così irragionevolmente la posizione dei conduttori di immobili pubblici rispetto a quella dei privati.
Quanto, invece, all’articolo 5 comma 7bis del decreto legge 415/95 convertito con modifiche nella legge 507/95 nel prevedere che gli aggiornamenti del canone, come rideterminato nel 1995, andrebbero computati, per i soli immobili pubblici, in base all’intera variazione Istat dei prezzi al consumo, introdurrebbe, secondo il remittente, una disparità di trattamento tra i conduttori di tali immobili e quelli ai quali si applica la legge sull’equo canone. Quest’ultimo, infatti, limita la rivalutazione del canone al 75 per cento del predetto indice.
La Consulta nel dichiarare la questione non fondata ha fornito, però, importanti chiarimenti. Si tratta, infatti, hanno detto i giudici delle leggi di un intervento legislativo destinato ad incrementare le entrate statali anche in vista del riequilibrio delle gravi sperequazioni createsi rispetto ai corrispettivi pagati in favore dei locatori privati. Del resto, il suo impatto è modulato secondo criteri non irragionevoli di temperamento degli effetti sul rapporto di locazione in corso, sia prevedendo la possibilità di recedere dal rapporto stesso, sia consentendo l’adempimento in più soluzioni.
Quanto alla presunta disparità di trattamento tra conduttori che siano dipendenti pubblici e quelli che non lo siano, le toghe sono state chiare: non si possono paragonare situazioni non omogenee.
Inoltre, la disciplina censurata limita l’aumento del canone locatizio ad una misura che non può superare la media dei prezzi praticati in regime di libero mercato. Peraltro, se si considera che i rapporti di locazione di immobili statali hanno una durata maggiore rispetto a quella, quadriennale, stabilita per le proprietà private non può dirsi irragionevole e discriminatorio la differente rivalutazione annuale del canone. (cri.cap)