LA CORTE D'APPELLO DI FIRENZE ADEGUA L'INDENNITA' DI ESPROPRIAZIONE AI CRITERI COMUNITRARI

SENTENZA N. 1935/2006 – L’indennità di espropriazione dei terreni edificabili deve corrispondere al valore commerciale del bene, secondo quanto deciso dalla Corte di Giustizia Comunitaria

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE D’APPELLO DI FIRENZE

SEZIONE I CIVILE

 

Composta dai Signori Magistrati:

Dott. Adriano Cini Presidente

Dott. Aldo Chiari Consigliere

Dott. Giulio De Simone Consigliere rel.

ha pronunciato la seguente

sentenza

nella causa civile iscritta al n. 1227/2004 del Ruolo generale contenzioso di questa Corte e vertente tra

*********S.p.A., con sede in Pisa, in persona del legale rappresentante Massimo Marchetti, rappresentata e difesa dagli avv.ti Ruggero Morelli e Nino Scripelliti, elettivamente domiciliato in Firenze presso lo studio del secondo in via di S. Reparata n. 40, giusta procura in calce all’atto di citazione

ATTRICE

e

Comune di ********, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Paolo Macchia e Lucia Macchia dell’avvocatura comunale, elettivamente domiciliato in Firenze presso lo studio dell’avv. Domenico Iaria, in via de’ Rondinelli n. 2, in forza di procura generale alle liti depositata all’atto della costituzione in giudizio

CONVENUTO

Oggetto: indennità di esproprio.

All’udienza del 10 febbraio 2006 i procuratori delle parti così concludevano:

per l’attrice: “Voglia la Corte determinare in misura conforme all’effettivo valore venale e/o all’effettiva capacità di reddito dei terreni de quo nella misura stimata in € 174,50 il metro quadrato o comunque in quella che il giudicante riterrà conforme alla legge l’indennità di occupazione e l’indennità di espropriazione degli stessi, con interessi e rivalutazione monetaria e con vittoria di spese ed onorari”.

Per il convenuto Comune: “Voglia la Corte, disatteso e reietto quanto in contrario espungasi e richiedasi, respingere ogni domanda di parte attrice, confermando di conseguenza l’esattezza e congruità dell’ammontare dell’indennità di espropriazione dovuta ed offerta dal Comune alla Ditta espropriata, ovviamente con la relativa decurtazione del 40% come per legge. Con ogni consequenziale pronuncia anche in ordine alle spese di giudizio”.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione, notificato il 13 maggio 2004, la società *********, con sede in Pisa, conveniva il Comune di ******** avanti questa Corte. Deduceva l’attrice di aver avuto la proprietà di due distinti terreni posti in territorio del Comune di ********, entrambi oggetto di espropriazione intesa a consentire la realizzazione della nuova viabilità per l’area portuale; la relativa indennità, liquidata dal Comune e successivamente confermata dalla Commissione per gli espropri in € 13.556,99, non era accettata da essa proprietaria, in quanto i terreni avrebbero dovuto essere considerati e valutati come edificabili, mentre le indicate Amministrazioni li avevano giudicati come agricoli. Chiedeva dunque l’attrice che fosse determinata la giusta indennità, da equipararsi al valore venale dei beni espropriati. Si costituiva il Comune convenuto che deduceva come la stima dell’indennità di esproprio fosse avvenuta alla stregua del disposto dell’art. 5 bis della legge 359/1992, cioè considerando i terreni come edificabili; errata era dunque la lettura che degli atti aveva fornito la società attrice. La somma, cui si era pervenuti in sede di liquidazione dell’indennità provvisoria e che era stata confermata come definitiva dalla Commissione per gli espropri, era dunque congrua ad esprimere la giusta indennità dovuta all’espropriata. In corso di giudizio si procedeva ad espletare C.T.U., intesa a determinare il valore dell’area; poiché dopo la precisazione delle conclusioni e prima della decisione la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo pronunciava, in sede di Grande Chambre, sentenza (in data 29 marzo 2006, in ordine alla controversia recante il n. 36813/1997) su questione analoga, veniva dato alle parti ulteriore termine per memorie in ordine all’efficacia della menzionata sentenza della CEDU in relazione alla causa presente.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Dal documento che la società attrice ha prodotto (nota 3 ottobre 2001 del Comune di Livorno) risulta evidente che l’ente espropriante, sin dall’inizio della procedura, considerava i terreni di cui si tratta come edificabili e che ha provveduto a liquidare l’indennità provvisoria facendo governo della norma di cui all’art. 5 bis della legge 359/1992; quei terreni, al momento dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, erano infatti dotati, secondo quanto si legge nella nota della stessa Amministrazione, di possibilità legali ed effettive di edificazione. Il valore venale, posto a fondamento della valutazione effettuata dall’ente espropriante, è stato pari a £ 70.000 al mq; il C.T.U. nominato in questo giudizio ha invece indicato come congruo il valore di € 135.750,00. Dei due valori, questa Corte ritiene corretto il secondo. Invero, nella valutazione del C.T.U. confluiscono i risultati di due distinti metodi di stima, entrambi condivisibili in astratto e correttamente impiegati in concreto: il C.T.U. ha dapprima preso in considerazione il valore medio di mercato dei terreni edificabili in quella zona, poi ha capitalizzato il reddito fornito da aree consimili, pervenendo in entrambi i casi a risultati vicini tra di loro; ha infine effettuato la media delle due valutazioni, che è appunto la stima che sopra si è indicata.

La normativa nazionale applicabile alla fattispecie, ossia l’art. 5 bis della L. 8 agosto 1992 n. 359, di conversione con modifiche del D.L. 11.7.1992 n. 333, prevede che, trattandosi di area edificabile, l’indennità di espropriazione sia liquidata sommando al valore venale, come sopra accertato, la somma dei redditi dominicali, rivalutati ai fini fiscali, degli ultimi dieci anni e detta somma divisa per due, in modo da avere la media dei due valori; sul risultato si dovrebbe, poi, applicare la riduzione del 40%, pure prevista dal citato art. 5 bis, in quanto la ditta espropriata non ha accettato la cessione volontaria del bene. Il risultato andrebbe poi sottoposto alla verifica prevista dall’art. 16 del D.Lgs. 30.12.1992 n. 504, secondo il quale l’indennità di espropriazione non può, in ogni caso, superare il valore del terreno dichiarato dal proprietario ai fini dell’imposta comunale sugl’immobili (ICI). Non va infine dimenticato, anche se ciò esula dalle attività di calcolo strettamente connesse con la liquidazione dell’indennità di esproprio, che la plusvalenza derivante dall’indennità stessa dovrebbe (ma non per le imprese esercenti attività commerciali) essere assoggettata all’imposta di cui all’art. 81 del D.P.R. 917/1986, in vista della quale l’art. 11 della legge 41371991 prevede la ritenuta d’acconto del 20%.

 

La normativa italiana in tema di determinazione dell’indennità di espropriazione ha formato oggetto, in tempi recenti, di decisioni ad opera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Già con la sentenza del 29 luglio 2004, caso SCORDINO contro Italia, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo aveva ritenuto che il sistema del citato art. 5 bis non fosse in grado di assicurare alla proprietà espropriata un indennizzo capace di corrispondere ai dettami dell’art. 1 del Protocollo n. 1, addizionale alla Convenzione di Roma del 4 novembre 1950 e ratificato dall’Italia con la stessa legge 4 agosto 1955, n. 848 d’esecuzione della Convenzione (Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende). In quella sede, la Corte Europea ha liquidato ai ricorrenti un indennizzo che, decurtato delle imposte di cui alla normativa interna, equivaleva a circa il 60% del valore venale del bene espropriato. Il governo italiano ha chiesto che questa decisione fosse oggetto di rinvio alla Grande Chambre, la quale si è pronunciata sullo stesso tema, con sentenza del 29 marzo 2006. In questa seconda occasione la Corte ha formulato un’affermazione che merita d’essere ricordata: <<256. Per determinare l’importo della riparazione adeguata, che non deve necessariamente riflettere il valore pieno ed intero dei beni, la Corte deve ispirarsi ai criteri generali enunciati nella sua giurisprudenza relativa all’art. 1 del Protocollo n. 1 e secondo i quali, senza il versamento di una somma ragionevolmente in rapporto col valore del bene, una sottrazione di proprietà costituirebbe ordinariamente una lesione eccessiva che non si saprebbe giustificare sul terreno dell’art. 1 del Protocollo n. 1 (sentenza James..) . La Corte ripete che in numerosi casi di espropriazione lecita, come l’espropriazione isolata di un terreno in vista della costruzione di una strada o per altri fini “di pubblica utilità”, solo in indennizzo pieno può essere considerato come ragionevolmente in rapporto col valore del bene (Ex-re di Grecia e altri c. Grecia (soddisfazione equa) decisione citata § 36..). Tuttavia, degli obiettivi legittimi “di pubblica utilità”, tali da costituire misure di riforma economica o di giustizia sociale, possono militare per un rimborso inferiore al valore pieno.

257. Nel presente affare, la Corte ha or ora constatato che il “giusto equilibrio” non è stato rispettato a riguardo del livello d’indennizzo largamente inferiore al valore di mercato e in assenza di motivi di “utilità pubblica” che possano permettere di derogare alla regola enunciata al paragrafo 95 che precede, secondo la quale, in assenza de detti motivi e in caso di espropriazione isolata l’indennizzo adeguato è quello che corrisponde al valore del bene (paragrafo 99-104 qui sopra). Per determinare l’importo della riparazione adeguata, che non deve necessariamente riflettere il valore pieno ed intero dei beni, la Corte deve ispirarsi ai criteri generali enunciati nella sua giurisprudenza relativa all’art. 1 del Protocollo n. 1 e secondo i quali, senza il versamento di una somma ragionevolmente in rapporto col valore del bene, una sottrazione di proprietà costituirebbe ordinariamente una lesione eccessiva che non si saprebbe giustificare sul terreno dell’art. 1 del Protocollo n. 1 (sentenza James..). La Corte ripete che in numerosi casi di espropriazione lecita, come l’espropriazione isolata di un terreno in vista della costruzione di una strada o per altri fini “di pubblica utilità”, solo in indennizzo pieno può essere considerato come ragionevolmente in rapporto col valore del bene (Ex-re di Grecia e altri c. Grecia (soddisfazione equa) decisione citata § 36..). Tuttavia, degli obiettivi legittimi “di pubblica utilità”, tali da costituire misure di riforma economica o di giustizia sociale, possono militare per un rimborso inferiore al valore pieno.

257. Nel presente affare, la Corte ha or ora constatato che il “giusto equilibrio” non è stato rispettato a riguardo del livello d’indennizzo largamente inferiore al valore di mercato e in assenza di motivi di “utilità pubblica” che possano permettere di derogare alla regola enunciata al paragrafo 95 che precede, secondo la quale, in assenza de detti motivi e in caso di espropriazione isolata l’indennizzo adeguato è quello che corrisponde al valore del bene (paragrafo 99-104 qui sopra).

Ne consegue che l’indennità di espropriazione adeguata nella specie avrebbe dovuto corrispondere al valore commerciale del bene. La Corte pertanto intende accordare una somma corrispondente alla differenza tra valore del terreno e indennità ottenuta a livello nazionale>>.

La sentenza della Grande Chambre è definitiva, ex art. 44 della Convenzione; essa non è tuttavia stata pronunciata nella controversia oggetto del giudizio presente, per cui da quella decisione non può farsi derivare, per lo Stato italiano, quell’obbligo di conformarsi, che l’art. 46 della Convenzione fa derivare dal giudicato. Per stabilire allora quale debba essere l’efficacia, nel presente giudizio, della statuizione della Corte che s’è detta, occorre individuare la collocazione che le norme della Convenzione hanno assunto nella gerarchia delle fonti del nostro diritto interno. A questo proposito è anzitutto doveroso ricordare quanto affermato da Corte Cost. 19 gennaio 1993 n.10: “Le norme internazionali appena ricordate sono state introdotte nell’ordinamento italiano con la forza di legge propria degli atti contenenti i relativi ordini di esecuzione (v. sentt. nn. 188 del 1980, 153 del 1987 e 323 del 1989) e sono tuttora vigenti, non potendo, certo, esser considerate abrogate dalle successive disposizioni del codice di procedura penale (…) perché si tratta di norme derivanti da una fonte riconducibile a una competenza atipica e, come tali, insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria”. Coerentemente con le indicazioni provenienti dalla Corte Costituzionale, la Corte di Cassazione aveva modo di affermare, pochi anni dopo (Cass. Civ. Sez. I, 8 luglio 1998, n. 6672) che “Le norme della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo, nonché quelle del primo protocollo addizionale, introdotte nell’ordinamento italiano con l. 4 agosto 1955 n. 848, non sono dotate di efficacia meramente programmatica. Esse, infatti, impongono agli Stati contraenti, veri e propri obblighi giuridici immediatamente vincolanti, e, una volta introdotte nell’ordinamento statale interno, sono fonte di diritti ed obblighi per tutti i soggetti. Nè può dubitarsi del fatto che le norme in questione – introdotte nello ordinamento italiano con la forza di legge propria degli atti contenenti i relativi ordini di esecuzione, non possono ritenersi abrogate da successive disposizioni di legge interna, poiché esse derivano da una fonte riconducibile ad una competenza atipica e – come tali – sono insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria.”

Si tratta di decisioni adottate quando le norme di diritto internazionale aventi origine consuetudinaria avevano già riconosciuta, ad opera dell’art. 10 della Costituzione, una collocazione sovraordinata rispetto a quelle di diritto interno e quando, ad opera della concorde giurisprudenza e di gran parte della dottrina, analogo riconoscimento era stato fatto derivare dall’art. 11 Cost. alle norme internazionali di origine pattizia concernenti l’istituzione di quella comunità che oggi si chiama Unione Europea; al contrario, al tempo delle sentenze citate da ultimo nella Carta fondamentale non v’era espressa considerazione della collocazione gerarchica delle norme internazionali aventi origine pattizia diverse da quelle cui si riteneva riferibile il citato art. 11 Cost. Il quadro normativo presente oggi è peraltro diverso da quello esistente al tempo della ricordata decisione del giudice delle leggi. Invero, nel testo attuale dell’art. 117 Cost. (quale introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) all’esercizio della potestà legislativa viene posto il vincolo derivante dagli obblighi internazionali; né può trascurarsi che l’intero ordinamento stia compiendo uno sforzo per adeguarsi a questi ulteriori parametri, come testimoniano la legge 9 gennaio 2006, n. 12 (Disposizioni in materia di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo) che ha modificato la legge 23 agosto 1988 n. 400 onerando il presidente del consiglio dei ministri di promuovere gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo emanate nei confronti dello Stato italiano; ovvero la legge 11 febbraio 2005 n. 15, la quale ha modificato l’art. 1 della legge 7 agosto 1990 n. 241 prevedendo che “L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario”. Consegue da tutto questo che alle norme convenzionali di cui si tratta (e, si ripete, di queste fanno parte quelle concernenti l’istituzione e le funzioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) deve riconoscersi un rango sopraordinato rispetto alla normativa ordinaria, così da non rimanere modificate dalla seconda.

Conferma di ciò può rinvenirsi in Cass. Civ. Sez. un. 14 aprile 2003, n. 5902, ove si legge che “Il collegio intende riaffermare che la normativa recata dalla citata Convenzione (ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848) è stata introdotta nell’ordinamento italiano con la forza di legge propria dell’atto contenente il relativo ordine di esecuzione (Corte costituzionale, 19 gennaio 1993, n. 10; Cass., 8 luglio 1998, n.6672, in motivazione), onde ha valore di fonte normativa primaria. Tale affermazione, del resto, è coerente con la struttura della Convenzione medesima, che affida in primo luogo a ciascuno Stato la cura di assicurare il godimento dei diritti riconosciuti al singolo (art. 1), richiedendo poi nell’art. 13 la garanzia dell’esistenza, nel diritto interno, di un ricorso effettivo, dinanzi ad una istanza nazionale, che consenta di avvalersi dei diritti e delle libertà consacrati dalla normativa convenzionale (il meccanismo di tutela previsto dalla Convenzione, dunque, riveste un carattere sussidiario rispetto ai sistemi nazionali di garanzia dei diritti fondamentali: arg. ex art. 35, par. 1, Conv… anche in difetto di obblighi internazionali idonei a rendere vincolante oltre il caso deciso il dictum della Corte di Strasburgo nei procedimenti davanti ai giudici nazionali, dalle pronunzie della Corte medesima non può prescindersi, in quanto esse costituiscono precedenti autorevoli e rilevanti supporti interpretativi al fine di assicurare una tutela effettiva ai diritti contemplati dalla Convenzione, nell’ambito da questa considerato)”; in senso conforme possono ancora ricordarsi Cass. Civ, sez. un. 6 maggio 2003 n. 6853 e più recentemente Cass. Civ. Sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28587.

Diviene dunque meglio comprensibile l’affermazione, che si rinviene nella decisione adottata dalla CEDU il 27 marzo 2003, di ammissibilità del ricorso 36813/97 (si tratta di una delle varie sentenze originate dal più volte citato caso Scordino contro Italia) e secondo cui “Anche se gli Stati contraenti non hanno l’obbligazione formale di incorporare la Convenzione nel sistema giuridico interno (sentenza James ed altri c. Regno Unito del 21 febbraio 1986, serie A no 98, p. 48, § 86; Christine Goodwin c. Regno Unito [GC], no 28957/95, CEDH 2002, § 113), dal suddetto principio di sussidiarietà discende che le giurisdizioni nazionali devono, per quanto possibile, interpretare ed applicare il diritto interno in modo conforme alla Convenzione. Infatti, se è vero che spetta innanzitutto alle autorità nazionali interpretare ed applicare il diritto interno, la Corte è comunque chiamata a verificare se il modo in cui il diritto interno è interpretato ed applicato produce effetti conformi ai principi della Convenzione (Carbonara e Ventura c. Italia, no 24638/94, CEDH 2000-VI, § 68; Streletz, Kessler e Krenz c. Germania, [GC], no 34044/96, 35532/97, 44801/98, § 49, CEDH 2001-II), della quale la giurisprudenza della Corte costituisce parte integrante.” Né la giurisprudenza di legittimità ha mancato di dimostrare sensibile adesione a quest’indicazione: si legge invero in Cass. Civ. sez. un., 26 gennaio 2004, n. 1340 che “Dal principio di sussidiarietà, di cui all’art. 35 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, deriva che nell’applicazione della l. 24 marzo 2001 n. 89 il giudice italiano deve, per quanto possibile, interpretare ed applicare il diritto nazionale in conformità alla convenzione, nella interpretazione e secondo i criteri offerti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”.

Può ancora aggiungersi che, se di fronte ad una decisione della giustizia italiana che disattenda le interpretazioni date dalla Corte europea dei diritti dell’uomo alle norme della Convenzione, il cittadino soccombente ha la possibilità di proporre le sue ragioni davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo e questa può attribuirgli un risarcimento per la violazione operata dalla decisione diversamente orientata del giudice nazionale (ne dà recente testimonianza la decisione 13 giugno 2006 della Grande Chambre, nella controversia Traghetti del Mediterraneo S.p.A. in liquidazione contro Italia); se questo è nel sistema, non si vede come il giudice interno possa ritenersi autonomo nell’interpretare la Convenzione rispetto alla Corte europea dei diritti dell’uomo e non si vede come negare che le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo sono cogenti per ogni giudice italiano.

In attuazione di tale principio, dunque, non può non applicarsi alla fattispecie l’articolo 1, del protocollo addizionale n. 1, della Corte europea dei diritti dell’uomo, in quanto contemplante spazi di tutela superiori a quelli previsti – anche a livello costituzionale e della relativa giurisprudenza – dalla attuale nostra legislazione interna e secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza della Corte dei diritti umani; articolo 1 il cui tenore, in coerenza con quanto si è sopra esposto, non può ritenersi inciso dalla successiva normativa italiana e, in particolare, dall’art. 5 bis della legge 359/1992 nè dagli artt. 37 e 55 del T.U. approvato con il D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, che ha sostituito senza sostanziali modifiche quella precedente normativa. Nel caso concreto, come risulta evidente dalla natura dell’intervento alla cui realizzazione era preordinato il provvedimento ablativo, si è trattato di un intervento isolato, cioè di quell’ipotesi per cui la Corte Europea ha affermato che “solo in indennizzo pieno può essere considerato come ragionevolmente in rapporto col valore del bene”.

Va dunque disapplicato il provvedimento amministrativo adottato il 22 gennaio 2004 dall’Agenzia del Territorio, Ufficio di Livorno, di liquidazione dell’indennità spettante all’attuale attrice, liquidazione che va invece sostituita con quella che si è detta all’inizio, di € 135.750,00.

L’attrice ha formulato le proprie conclusioni in termini che potrebbero far ritenere che la domanda sia limitata alla dichiarazione della giusta indennità, senza che al Comune convenuto sia comminata condanna al pagamento della differenza tra quanto già versato e quanto qui riconosciuto dovuto. Una decisione del genere non sarebbe inutile ma renderebbe comunque necessaria una successiva azione per la formazione del titolo esecutivo; appare dunque conforme a logica interpretare la domanda introduttiva nel senso che con essa l’attrice abbia voluto comprendere anche la condanna di cui si tratta.

Sull’indennità di espropriazione la Bipielle ha chiesto il riconoscimento degli interessi e dei danni da svalutazione monetaria.

Rileva questa Corte di merito che in proposito l’orientamento affermatosi nel tempo è ben riassunto da Cass. 6.2.1997 n. 1113:

<<.. Questa Corte, infatti, ha ripetutamente affermato il principio secondo cui il debito dell’espropriante di pagare l’indennità di espropriazione costituisce un’obbligazione di valuta e che sullo stesso sono dovuti, dal giorno dell’espropriazione, gli interessi legali, di natura compensativa, per il solo fatto che la relativa somma è rimasta a disposizione dell’ente espropriante, a prescindere da una sua colposa responsabilità per il ritardo nel pagamento dell’indennità: l’eventuale rivalutazione di questa, per contro, presuppone la mora dell’espropriante e, quindi, un suo comportamento colpevole, idoneo a far sorgere l’obbligo di ulteriore risarcimento ai sensi dell’art. 1224, 2º comma, c.c. (configurabile, peraltro, solo a partire dall’instaurazione del giudizio di opposizione alla stima), ma tale ulteriore pregiudizio non è presunto e dev’essere dimostrato dalla parte interessata, che non può limitarsi ad invocare generiche presunzioni, desunte dalla notoria svalutazione o da non precisati investimenti produttivi (cfr. Cass. 1873/96, 9475/95, 7159/95). Trattasi di principi direttamente ricollegabili alla natura di debito di valuta dell’indennità espropriativa, al pari di quella per occupazione legittima: in tema di obbligazioni pecuniarie, invero, è da escludere che, per l’identificazione e/o quantificazione del maggior danno, il ricorso ad elementi presuntivi ed a fatti di comune esperienza possa tradursi nell’applicazione di parametri fissi, quali gli indici Istat, o possa implicare esonero dall’onere di allegazione di prova, essendo tale ricorso consentito solo in stretta correlazione con le qualità e condizioni della categoria di appartenenza del creditore, ossia sulla base di dati personalizzati che debbono essere forniti dall’interessato (in tal senso, Cass. 533/96, 9645/94, SS.UU. 4344/93). La sentenza impugnata si sottrae, quindi, alla censura mossa dal ricorrente, atteso che, per un verso, il giudice di merito ha attribuito gli interessi compensativi a far data dall’esproprio, avendo cura di precisare che non spettava allo Schepisi il maggior danno da svalutazione perché era stata ritenuta congrua la stima dell’indennità effettuata in sede amministrativa e, per altro verso, che lo stesso Schepisi si è limitato ad indicare la svalutazione monetaria come fatto notorio… il ricorrente lamenta che, nel determinare l’indennità di occupazione temporanea con il criterio degli interessi legali sulla somma attribuita a titolo di indennità di esproprio, la Corte territoriale non abbia tenuto conto del valore effettivo ed attualizzato dell’immobile espropriato. La censura è priva di fondamento, poiché il giudice di merito, liquidando l’indennità di occupazione in misura corrispondente agli interessi legali sull’importo dell’indennità di espropriazione (criterio del tutto legittimo e, comunque, non contestato dall’odierno ricorrente), ha tenuto conto del fatto che quest’ultima era stata determinata in base al valore venale del fabbricato: né tale valore andava rivalutato, per le ragioni già espresse.

Con il quarto mezzo si denunzia violazione degli artt. 71 e 73 L. 2359/1865 e 20 L. 865/71, con riferimento all’art. 360 n. 3 c.p.c., la Corte messinese avendo riconosciuto gli interessi legali sulla somma liquidata a titolo di indennità di occupazione legittima soltanto a decorrere dalla domanda, mentre andavano attribuiti alla scadenza di ciascuna annualità. La censura è fondata, atteso che gli interessi dovuti sull’indennità di occupazione, in quanto diretti a compensare il proprietario della mancata disponibilità dei frutti che avrebbe percepito periodicamente, decorrono dalla scadenza di ciascuna annualità, quale momento di maturazione del relativo diritto: l’adozione del criterio di liquidazione della predetta indennità con gli interessi legali su quella di esproprio, inoltre, non trasforma in debito di interessi l’obbligo di reintegrare il proprietario che ha subito il pregiudizio patrimoniale derivante dal mancato godimento dell’immobile (cfr. Cass. 2014/81, 1688/80, 4242/79 ed altre). Questa Corte ha anche precisato che il periodo di occupazione legittima decorre dal giorno dell’emanazione del decreto che l’autorizza, il quale segna l’immediata ed automatica compressione dominicale a favore dell’occupante, restando irrilevanti sia l’anteriorità delle operazioni preliminari per la compilazione dello stato di consistenza, sia l’eventuale posteriorità della materiale apprensione del bene (Cass. 9064/95).>>.

Il collegio, per altro, ritiene che il principio debba essere rimeditato.

A norma dell’art. 1282 c.c., infatti, <>.

Ciò significa che l’obbligo di corrispondere gli interessi “compensativi” (o “corrispettivi”, come anche si dice: v. Cass. civ., sez. I, 14 agosto 1997, n. 7627 e Cass. civ., sez. I, 18 luglio 1997, n. 6627) <> (Cass. 18-01-1983, n. 440; cfr. Cass. 19-05-1983, n. 3493; Cass. 22-06-1985, n. 3782; Cass. 11-01-1986 n. 103; Cass. 17-04-1993, n. 4561; Cass. sent. 01-09-1990, n. 9084).

Orbene, solo a seguito della CTU svolta in giudizio e della valutazione che ne ha dato il collegio giudicante è stato possibile “liquidare” il credito per l’espropriazione e (di conseguenza) quello per l’occupazione provvisoria.

Non ricorrono, dunque, gli estremi per il riconoscimento degli interessi “compensativi” (o “corrispettivi” che si voglia dire).

E del resto, quando si riconosce ormai che l’indennità di occupazione corrisponde alla misura degli interessi legali maturati dall’immissione in possesso (ovvero: dal decreto di occupazione!) fino al decreto di esproprio (non già sul valore venale del bene ma) sulla somma dovuta per l’esproprio (inutile citare in proposito la stessa Cass. 6.2.1997 n. 1113, sopra riportata), la funzione della indennità di occupazione viene ad essere quella di un compenso per il tempo decorso tra lo spossessamento (anche virtuale!) diretto all’esproprio e l’erogazione effettiva della indennità di espropriazione. Giacché l’Amministrazione perfetta dovrebbe far coincidere i due momenti, vista la decurtazione di ricchezza che è imposta all’espropriato.

Se così non fosse la corretta interpretazione del sistema, si imporrebbero due conseguenze ulteriori: a) <> (Cass. civ., 15 novembre 1985, n. 5605); b) dovrebbe ritenersi fondata la pretesa del Comune di Empoli di accertare mediante apposita CTU se il reddito agrario effettivamente ricavato dai terreni non fosse stato inferiore a quello calcolabile in via presuntiva, dovendosi attribuire una indennità di occupazione pari al reddito effettivo perduto anche se minore di quello forfetario – fino a zero in caso di terreni lasciati incolti da tempo -, e non solo se maggiore (come si desume invece da Cass. civ., sez. I, 26 giugno 1997, n. 5718 – che però non ha ancora attinto la necessità del calcolo degli interessi sull’indennità di esproprio -: <>).

Il collegio ritiene che dell’esposto suo convincimento sia conferma l’ulteriore recente insegnamento della S.C., riguardo all’espropriazione di terreni non edificatori (cui su applica, per la determinazione della indennità di occupazione, il parametro fisso di <<1/12 dell’indennità che sarebbe dovuta per l’espropriazione dell’area da occupare>>: art. 20, 3° comma, legge n. 865/71):

<> (Cass. 20.3.1998 n. 2929). Ciò vuol dire, in realtà, non tener conto del reddito effettivo (prodotto dai terreni non edificabili utilizzati diversamente che per la produzione agricola) ma solo di quello virtuale derivante dalla valutazione della Commissione Provinciale che <> (art. 16, legge 865/71) (Si può, magari, ritenere che il criterio formale qui indicato renda fin dall’origine liquido il credito per occupazione di suolo agricolo da espropriare: e, quindi, fin dall’origine produttivo di interessi compensativi ex art. 1282 c.c. – a differenza del credito per occupazione di terreno edificabile.).

E’ allora chiarita la portata di quanto si legge in Cass. S.U. 20.1.1998 n. 493 sulla natura giuridica della indennità per la occupazione finalizzata all’esproprio:

<>.

Ribadisce allora il collegio: l’indennità di esproprio non comporta interessi compensativi (o corrispettivi) ex art. 1282 c.c., perché (e finché) non costituisce un credito liquido.

In conclusione, dunque: mancando atti di costituzione in mora anteriori, la Bipielle può pretendere la corresponsione degli interessi (moratori ex art. 1224 c.c.!) solamente dalla notifica della citazione del Comune a giudizio (13 maggio 2004).

Solo dalla stessa data, evidentemente, si pone poi il problema del “maggior danno” da svalutazione monetaria (art. 1224, 2° comma, c.c.). Questo avrebbe dovuto essere dimostrato; in carenza di prova, il relativo capo di domanda dev’essere respinto.

La società attrice ha anche chiesto la liquidazione dell’indennità di occupazione d’urgenza; non ha peraltro allegato prova alcuna a dimostrazione della circostanza che il decreto d’esproprio (prodotto dal Comune convenuto ed adottato il 18 febbraio 2003) sia stato preceduto da un periodo d’occupazione provvisoria. La relativa domanda non può dunque trovare accoglimento.

Valutando la complessiva soluzione della controversia, non è dubitabile che sia il Comune a rimanere soccombente, onde sarà la convenuta Amministrazione a dover rifondere all’attrice le spese del presente giudizio, liquidate in complessivi € 11.571,84 (€ 2.131,00 per diritti, € 8.000,00 per onorari, € 427,84 per esborsi imponibili, € 1.013,00 per rimborso forfettario) oltre IVA se dovuta e CAP.

P.Q.M.

La Corte d’Appello di Firenze, Sez. I Civile, definitivamente pronunciando, liquida l’indennità di espropriazione spettante alla società ********S.p.A. in €135.750,00. oltre interessi legali dal 13 maggio 2004; condanna, conseguentemente, il Comune di ********ad integrare, fino a concorrenza della somma di cui sopra e dei relativi interessi, il deposito presso la Cassa Depositi e Prestiti. Condanna infine il Comune convenuto a rifondere all’attrice le spese di questo giudizio, liquidate in € 11.571,84, oltre IVA se dovuta e CAP.

Così deciso in Firenze il 17 ottobre 2006.

 

Il Presidente

Dott. Adriano Cini

Il Cons. est.

Dott. Giulio De Simone

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