LA DISTANZA MINIMA TRA PARETI FINESTRATE DI FABBRICATI CHE SI FRONTEGGIANO VA SEMPRE RISPETTATA

Corte d’Appello di Firenze, Sezione I, ottobre 2005, n. 1386 – La distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate deve essere sempre rispettata, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata.

 

La distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate deve essere sempre rispettata, indipendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 28 novembre 1992 *******esponeva che era proprietario di un fabbricato posto a ********, confinante con il fondo di proprietà di **********, la quale aveva realizzato interventi di sopraelevazio-ne, ristrutturazione ed ampliamento del proprio edificio, violando le norme di edilizia e quelle sulle distanze legali, in particolare l’articolo 9 del decreto ministeriale 2 aprile 1968 1444, nella parte in cui prescri-veva il distacco assoluto di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edi-fici antistanti.

Precisava il ****** che la ********, nel realizzare la sopraelevazione del tetto del proprio fabbricato principale, aveva rea-lizzato un abnorme ampliamento verso il fondo di sua proprietà, anche in violazione delle prescrizioni del contratto stipulato il 26 gennaio 1961, con il quale era stato imposto alla ******** il limite di edificare o a cavallo della linea di confine oppure a distanza non inferiore a 3,20 metri, anche con riferimento «alla maggiore sporgenza di terrazzi, balconi o aggetti in genere», mentre questa aveva ampliato il fabbricato fin quasi al confine ed anche le grondaie ed i pluviali non erano a distanza lega-le.

Tanto premesso, il ******* conveniva ******* dinanzi al Tribunale di Lucca per sentirla condannare ad arretrare o rimuovere ogni manufatto realizzato in violazione del contratto stipulato il 26 gennaio 1961 e delle norme di edilizia e/o a distanza inferiore a quanto previsto dal codice civile, oltre che al risarcimento dei danni.

Con successivo atto di citazione notificato il 25 novembre 1995 il ******* conveniva nuovamente la ******* in giudizio di-nanzi al Tribunale di Lucca, rilevando che la costruzione da lei realizza-ta non rispettava neppure la distanza di 5 metri dal confine.

Le due cause erano riunite e, instauratosi il contraddittorio, la convenuta resisteva alla domanda, contestando di avere realizzato una costruzione soggetta alle distanze legali o contrattuali e negando in ogni caso le asserite violazioni di legge o negoziali.

La causa veniva istruita con l’espletamento di una consu-lenza tecnica d’ufficio, con l’assunzione di una prova testimoniale e con la produzione di documenti e il Tribunale, con la sentenza n. 1236 del 7 ottobre 2002, ha ritenuto che alla falda del tetto dell’edificio della ********non erano applicabili le prescrizioni legali e contrattuali perché aveva le caratteristiche della costruzione, in quanto era un semplice sporto privo delle caratteristiche della solidità e dell’immobilizzazione rispetto al suolo, ed ha perciò respinto tutte le domande proposte dal *********.

Con atto di citazione notificato il 15 ottobre 2003 il ******** ha proposto appello avverso questa decisione, affermando con il primo motivo che, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, la falda della copertura del tetto dell’edificio di proprietà della ******era una struttura di notevoli dimensioni, incorporata al fabbricato e ad esso funzionale, sicché costituiva una costruzione in senso tecnico, cui dovevano essere applicate le norme sulle distanze legali. Con il secon-do motivo ha inoltre dedotto che il primo giudice non aveva tenuto conto che in ogni caso, per espressa previsione del contratto del 26 gennaio 1961, i fabbricati avrebbero dovuto essere edificati a cavallo del confine oppure a distanza non inferiore a 3,20, anche con riferi-mento alla «maggiore sporgenza di terrazzi, balconi o aggetti in genere», quindi anche alla falda del tetto della ******.

La ******si è costituita ritualmente, contestando il fondamento dei motivi di impugnazione e proponendo appello incidentale per sentir condannare l’appellante al rimborso delle spese processuali di entrambi i gradi del giudizio, ed all’udienza collegiale del 29 aprile 2005 la causa è stata trattenuta per la decisione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il Tribunale di Lucca ha escluso che la ******, nell’ampliare le dimensioni della copertura dell’edificio di sua proprietà, avesse violato le distanze minime prescritte dall’articolo 9 del decreto ministeriale 2 aprile 1968 n. 1404, sostenendo che la norma era destinata a soddi-sfare preminenti esigenze pubbliche di igiene e sicurezza e che non era applicabile alla falda del tetto, la quale non aveva il requisito della co-struzione perché «costituiva un semplice sporto, che per sua natura non attie-ne al corpo di fabbrica e manca delle caratteristiche della solidità e della immobi-lizzazione rispetto al suolo».

Con il primo motivo di appello il ****** ha invece dedotto che, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, la falda della co-pertura del tetto dell’edificio di proprietà della ******era una strut-tura di notevoli dimensioni, incorporata al fabbricato e ad esso funzio-nale, sicché costituiva una costruzione in senso tecnico, cui dovevano essere applicate le norme sulle distanze legali.

Il motivo è fondato perché il Tribunale è partito da una esatta premessa in diritto, in ordine alla natura e alle finalità della normativa in esame, ma poi ha svalutato le caratteristiche del manufatto realizza-to dalla ******, finendo per escludere erroneamente che avesse la natura di «costruzione» e che fosse conseguentemente soggetto alla di-sciplina sulle distanze legali.

L’articolo 9 del decreto ministeriale 2 aprile 1968 n. 1404, in ap-plicazione dell’articolo 41 quinquies della legge urbanistica, come modi-ficato dall’articolo 17 della legge 6 agosto 1967 n. 765 (cosiddetta «legge ponte»), detta i limiti di densità, altezza, distanza tra i fabbricati, pone al secondo comma dell’articolo 9 una prescrizione tassativa ed inderogabile, secondo la quale «Le distanze minime tra fabbricati per le di-verse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue: (…) 2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti».

Questa distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti deve perciò essere sempre rispettata, indi-pendentemente dalla circostanza che una sola delle pareti fronteggian-tesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o del-l’edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all’altra (Cass., 3 agosto 1999, n. 8383).

Ed è indifferente se tale parete sia quella del nuovo edificio o quella dell’edificio preesistente, essendo sufficiente per l’applicazione di tale distanza che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, prescindendo altresì dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela e ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta (Cass., 26 luglio 2002, n. 11013; Cass., 30 marzo 2001, n. 4715; Cass., 24 luglio 2001, n. 10062, in Arch. locaz. e cond. 2001, 797; Cass., 3 agosto 1999, n. 8383; Cass., sez. un., 18 febbraio 1997, n. 1486; Cass., 6 maggio 1993, n. 5226; Cass., 5 novembre 1992, n. 12001, in Riv. giur. edilizia 1993, I, 776; Cass., 28 agosto 1991, n. 9207).

Pertanto, la disciplina sulle distanze deve esser osservata anche se soltanto su uno di essi sono aperte le finestre, mentre quello di fronte ha una parete cieca, perché l’articolo 9 del decreto ministeria-le 2 aprile 1968 n. 1404 è volto a stabilire, nell’interesse pubblico, u-n’idonea intercapedine tra edifici, e non a salvaguardare l’interesse privato del frontista alla riservatezza (Cass., 6 luglio 2002, n. 11013; Cass., 3 maggio 2001, n. 6176; Cass., 26 gennaio 2001, n. 1108; Cass., 9 marzo 1999, n. 1984).

Ciò posto, è ius receptum che, ai fini dell’osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dagli articoli 873 e seguen-ti del codice civile e delle norme dei regolamenti locali integrativi della disciplina codicistica, deve ritenersi «costruzione» qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo anche mediante appoggio o incorpo-razione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell’opera stessa, dai caratteri del suo sviluppo aereo dal-l’uniformità e continuità della massa, dal materiale impiegato per la sua realizzazione, dalla sua destinazione.

In particolare, quando si realizzi un edificio dotato di sporti od aggetti, ovvero un’opera ad esso accessiva consistente in sporti od aggetti, questi, ove non presentino funzione complementare meramen-te decorativa ma dimensioni consistenti e siano stabilmente incorporati nell’immobile, del quale vengono a costituire un accessorio o una per-tinenza di guisa da ampliarne la superficie o la funzionalità, assumono il carattere di costruzione e se ne deve tener conto ai fini dell’accerta-mento del rispetto della normativa sulle distanze (Cass., 15 febbraio 2001, n. 2228).

Sicché, nel calcolo delle distanze fra le costruzioni devono trascurarsi solo gli sporti che consistono in sporgenze di limitata entità, con funzione meramente decorativa, mentre vengono in considerazio-ne le sporgenze costituenti, per i loro caratteri strutturali e funzionali, veri e propri aggetti (Cass., 2 ottobre 2000, n. 13001).

Con la conseguenza che il proprietario del terreno confinante non può, in violazione delle distanze legali, realizzare una tettoia che avanzi rispetto all’edificio già esistente, dovendo la tettoia considerarsi parte integrante del fabbricato (Cass., 30 ottobre 2003, n. 16358; Cass., 6 marzo 2002, n. 3199, in Riv. giur. edilizia 2002, I, 1073).

Nel caso di specie è indubbio che la falda spiovente a sbalzo del-la copertura dell’edificio di proprietà della******non ha funzione meramente decorativa, ma costituisce un aggetto di notevoli dimen-sioni, strutturalmente facente parte del fabbricato e ad esso funziona-le.

Lo si vede chiaramente da tutte le fotografie, ove si manifesta anche visivamente nelle sue dimensioni (2,96 metri) verso il confine e nella sua notevole massa.

Il consulente tecnico d’ufficio ha accertato che «tale falda sostitui-va una preesistente tettoia in ondulato di vetroresina sorretta da struttura in ferro» che nelle fotografie sembra invece un oggetto di minima entità, peraltro facilmente amovibile.

La ******ha quindi realizzato una opera nuova, di dimensioni e volumetria molto maggiori e di struttura diversa rispetto a qualsiasi opera asseritamente preesistente.

Si tratta, dunque, che il cospicuo aggetto realizzato ex novo nell’anno 1992, che ha dimensioni notevoli e certamente non ha fun-zioni meramente decorative, ma è strutturale e funzionale all’edificio, sì che costituisce «costruzione» in senso tecnico e deve tenersene conto ai fini del calcolo delle distanze legali prescritte dall’articolo 9 del de-creto ministeriale 2 aprile 1968 n. 1404.

E’ pur vero che dopo la ristrutturazione del fabbricato della ******, e quindi la realizzazione della falda in contestazione, il ******ha costruito, in adesione al confine, un piccolo manufatto ad uso wc.

Ma la realizzazione di questo manufatto, peraltro in regola con le prescrizioni convenzionali perché realizzato a cavallo del confine, non può certamente sanare la precedente violazione delle distanze prescrit-te dal decreto ministeriale 2 aprile 19868 n. 1404, che era stata già consumata ed aveva già generato il diritto del Veneziano a chiedere la riduzione in pristino.

L’appello deve quindi essere accolto, con la condanna della ****** ad arretrare la falda spiovente a sbalzo della copertura dell’edificio di proprietà fino alla distanza di dieci metri dal fabbricato principale di proprietà del ******.

L’accoglimento dell’appello principale comporta la reiezione dell’impugnazione incidentale della ******sulle spese processuali.

Non può essere accolta, invece, la domanda proposta dal ******per ottenere il risarcimento dei danni, quantificati in via principa-le in €uro 10.000,00, da liquidarsi eventualmente in via equitativa.

Sia nell’atto di appello che nelle difese successive il ******non ha fatto neppure un cenno al pregiudizio patrimoniale even-tualmente causatogli dalla realizzazione della falda della copertura dell’edificio sul fondo confinante.

Non ha quindi fornito alcuna specifica dimostrazione in or-dine all’esistenza e alla quantificazione dei danni ed ha sostanzialmen-te rimesso la liquidazione al giudice, che potrebbe procedervi soltanto con valutazione sostanzialmente equitativa.

Ma nel caso in esame non può farsi ricorso alla valutazione equitativa dei danni perché non ne ricorrono i presupposti in quanto il potere discreziona¬le che l’articolo 1226 del codice civile conferisce ai giudici è subordinato rigorosamente al duplice presupposto che risulti provata, e comunque incontestata, l’esistenza di danni risarcibili (Cass., 21 giugno 2000, n. 8468; Cass., 20 gennaio 1999, n. 508; Cass., 8 settembre 1997, n. 8711; Cass., 20 aprile 1995, n. 4473; Cass., 24 gennaio 1992, n. 781; Cass., sez. un., 30 settembre 1986, n. 674; Cass., 29 aprile 1986, n. 2957; Cass., 5 settembre 1985, n. 4619; Cass., 4 luglio 1981, n. 4364; Cass., 19 marzo 1980, n. 1837; Cass., 9 luglio 1979, n. 3942) e che sia impossibile o molto difficile di-mostrarne il preciso ammontare (Cass., 10 aprile 2000, n. 4487; Cass., 16 dicembre 1999, n. 14166; Cass., 14 maggio 1998, n. 4894; Cass., 11 febbraio 1998, n. 1382; Cass., 21 giugno 1995, n. 7024; Cass., 26 gennaio 1995, n. 957; Cass., sez. un., 9 giugno 1992, n. 7067; Cass., 16 giugno 1990, n. 6056; Cass., 5 marzo 1990, n. 1724; Cass., 5 maggio 1988, n. 3340; Cass., 21 aprile 1988, n. 3090; Cass., 29 gennaio 1988, n. 836; Cass., 9 giugno 1987, n. 5031; Cass., 5 set-tembre 1985, n. 4619), oltre che all’in¬dicazione degli specifici titoli di danno (Cass., 13 dicembre 1994, n. 10649).

La possibilità di ricorrere alla liquidazione equitativa quindi non può essere invocata dall’interessato per sottrarsi all’onere probato-rio cui è tenuto e non lo esonera pertanto dall’obbligo di offrire gli ele-menti probatori circa l’esistenza del danno, esaurendosi tale apprez-zamento equitativo nella necessità di colmare le lacune inevitabili nella determinazione del suo effettivo ammontare (Cass., 24 dicembre 1994, n. 11163; Cass., 16 giugno 1990, n. 6056; Cass., 26 febbraio 1986, n. 1212; Cass., 5 marzo 1984, n. 1530), di allegare tutte le cir-costanze specifiche, oggettive e soggettive, del caso concreto, che pre-sentino rilevanza giuridico patrimoniale (cfr.: Cass., 11 febbraio 1985, n. 1130) e di fornire al giudice tutti i possibili dati di fatto in suo pos-sesso che valgano a consentirgli almeno un orientamento di massima per la sua valutazione (Cass., 8 luglio 1981, n. 4488; Cass., 21 feb-braio 1981, n. 1048).

Sicché‚ il ricorso alla valutazione equitativa si giustifica sol-tanto quando non è possibile valutare altrimenti le componenti del danno, quando cioè l’attività istruttoria espletata non è valsa ad elimi-nare ogni incertezza sull’ammontare del danno mentre ad essa non si può far luogo, invece, per colmare le lacune probatorie delle parti (Cass., 19 marzo 1991, n. 2394).

L’impossibilità di provare il preciso ammontare del danno deve infatti derivare da ragioni obiettive e non da inerzia o negligenza del danneggiato ed il potere di liquidazione equitativa non è invocabile con riguardo a specifiche voci del danno che la parte interessata sia in grado di dimostrare nel loro esatto ammontare fornendo congrui ed i-donei elementi al riguardo (Cass., 29 gennaio 1983, n. 840).

Il ******, quindi, avrebbe dovuto fornire tutti gli ele-menti possibili per dimostrare l’esistenza del danno e la sua consisten-za e, solo dopo aver assolto tale onere ed aver constatato che perma-neva l’impossibilità di quantificare con precisione l’ammontare del pre-giudizio, poteva chiedere al giudice di liquidarlo con valutazione equita-tiva.

Nel caso di specie, invece, il ****** non ha affatto of-ferto tutti gli elementi probatori che, usando normale diligenza, avreb-be potuto fornire per la quantificazione del danno ed ha chiesto la li-quidazione con valutazione equitativa esclusivamente per colmare le sue evidenti lacune probatorie.

Da una situazione pur potenzialmente idonea a produrre danno non può trarsi la certezza del suo verificarsi, ed il passaggio da una mera potenzialità ad una realtà obbiettiva costituirebbe un salto logico che non può compiersi in base a semplici presunzioni, con la conseguenza che in questo caso non può che applicarsi il principio «ac-tore non probante reus absolvitur» (Cass., 3 maggio 2001, n. 6189; Cass., 20 aprile 2001, n. 5899; Cass., 12 marzo 1997, n. 2204; Cass., 3 maggio 1993, n. 5115; Cass., 4 agosto 1990, n. 7873; Cass., 30 otto-bre 1986, n. 674) e la domanda deve essere rigettata.

L’assoluta carenza di qualsiasi difesa, nonché di ogni elemento di prova, in ordine all’esistenza di danni risarcibili induce ad escludere in via definitiva la loro effettiva sussistenza e, quindi, impedisce anche di pronunciare la condanna generica, con riserva di liquidazione in sepa-rato giudizio.

In applicazione del principio stabilito dall’articolo 91 del co-dice di procedura civile, cui non vi è ragione di derogare, posto che il rigetto della domanda di risarcimento dei danni non ha inciso sull’economia del processo, la ******va condannata al rimborso delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio che, tenuto conto del valore della causa e dell’attività svolta, si liquidano in complessivi €uro 6.754,90 (di cui €uro 304,46 per spese effettivamente sostenute, €uro 2.008,91 per diritti e €uro 4.441,53 per onorari) per il primo grado e in complessivi €uro 6.966,90 (di cui €uro 310,00 per spese effettiva-mente sostenute, €uro 1.056,90 per diritti e €uro 5.600,00 per onorari) per il giudizio di impugnazione, oltre spese generali, C.A.P. e I.V.A. come per legge.

P. Q. M.

La Corte di Appello di Firenze, definitivamente decidendo, in ri-forma della sentenza n. 1236 del 7 ottobre 2002 del Tribunale di Luc-ca, respinte tutte le altre domande, condanna ******ad arre-trare la falda spiovente a sbalzo della copertura dell’edificio di proprie-tà fino alla distanza di dieci metri dal fabbricato principale di proprietà di ******, posto a ******. Con-danna inoltre la ******al rimborso delle spese processuali di en-trambi i gradi di giudizio, liquidate in complessivi €uro 6.754,90 per il primo grado ed in complessivi €uro 6.966,90 per il secondo grado, oltre spese generali, C.A.P. e I.V.A. come per legge.

Così deciso il 6 maggio 2005 a Firenze, nella Camera di Consiglio della prima sezione civile della Corte di Appello di Firenze, su relazione del Consigliere dott. Valentino Pezzuti.

Il Consigliere Estensore Il Presidente

 

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