La modificazione di una parte condominiale ad opera di un condomino, non è consentita

Corte di Appello di Firenze, Sezione I, 24 gennaio 2005, n. 154 – La modificazione di una parte comune e della sua destinazione, ad opera di taluno dei condomini, può sottrarre la cosa al compossesso di tutti i condomini, e legittima gli altri all’esperimento dell’azione di reintegrazione per il ripristino dello stato precedente.

 

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Svolgimento del processo.

Con ricorso possessorio depositato presso il Tribunale di Firenze il 12/7/1999 Lorella Rodani ne’ Cini espose di essere proprietaria di un appartamento posto al primo piano di un fabbricato condominiale sito in Tavarnelle Val di Pesa; gli unici, altri condomini erano i coniugi convenuti, Mario Terzoli e Franca Papini, comproprietari della porzione costituente il secondo piano; premesso che, in seguito ai lavori effettuati nell’appartamento dei condomini Papini e Terzoli, era stato ostruito un tubo di sfiato che serviva la cucina sottostante, della stessa ricorrente, e che ciò aveva a lei impedito, fino ad allora, di andare ad abitare nella casa in questione; premesso, inoltre, che i convenuti Papini e Terzoli, nel settembre 1998, avevano collocato la porta blindata del loro appartamento lungo le scale, occupando una parte condominiale dell’immobile, la ricorrente invocò la tutela possessoria in ordine ad entrambe le condotte ascritte ai convenuti.

Disposta ed eseguita ctu il Tribunale, con ordinanza del 23/10/2000, rigettò, in via sommaria, le istanze.

Nel prosieguo del processo, disattese le istanze attoree di prove per testi, il Tribunale, con sentenza 13 xi 2002, n. 811P, dichiarò cessata la materia del contendere in merito allo sfiato (che, nel frattempo, era stato riaperto); respinse la domanda relativa al pianerottolo e quella relativa al risarcimento del danno conseguente alla inabilità della casa per il tempo in cui la cucina era rimasta priva di sfiato; condannò l’attrice alle spese di lite e di ctu.

Il Tribunale osservò, in particolare, che la ricorrente non aveva dimostrato lo jus possessionis in ordine al tratto del vano-scale fatto proprio dai condomini e che nemmeno risultava provato il fatto che lo sfiato, poi riaperto, fosse stato ostruito per causa dei lavori eseguiti dai convenuti stessi.

Con atto di citazione in appello notificato il 18 e il 19/3/2003 Lorella Rodani si è doluta della pronunzia ora rammentata osservando, in particolare:

1) che, in realtà, ella aveva richiesto al primo giudice l’ammissione di prove per testi (riproposte, ora, in questo grado) idonee a dimostrare la responsabilità dei convenuti in ordine all’ostruzione della canna fumaria, prove che erano state, ingiustamente, respinte; da ciò l’erroneità della condanna alle spese in riferimento a un capo della decisione (di cessazione della materia del contendere) nel quale l’attrice era, virtualmente, vittoriosa;

2) che, erroneamente, alla luce della giurisprudenza della SC (Cassazione civile, sez. II, 13 luglio 1993, n. 7691), il primo giudice aveva ritenuto non provato il jus possessionis della ricorrente relativo al vano delle scale;

3) che ingiusto era stato, quindi, anche il rigetto della domanda risarcitoria, posto che l’ostruzione che aveva reso inabitabile l’appartamento attoreo era stata eliminata solo otto mesi dopo l’inizio del processo.

Costituitasi nel giudizio d’appello Franca Papini ha contrastato l’impugnazione chiedendone il rigetto.

All’udienza camerale del 4/5/2004, nella contumacia del convenuto in appello Mario Terzoli, i procuratori delle parti costituite hanno precisato le rispettive conclusioni come in epigrafe, richiedendo i termini di cui all’art. 190 cpc.

Scaduti tali termini la causa è stata, infine, decisa dalla Corte nella camera di consiglio del 7 ix 2004.

Motivi della decisione

1) Il secondo motivo d’appello (erroneamente, il primo giudice aveva ritenuto non provato il jus possessionis della ricorrente relativo al vano delle scale) è fondato: non vi è, infatti, motivo di disattendere, sul punto del jus possessionis, la giurisprudenza del SC secondo cui, «in caso di condominio negli edifici, la modificazione di una parte comune e della sua destinazione, ad opera di taluno dei condomini, sottraendo la cosa alla sua specifica funzione e quindi al compossesso di tutti i condomini, legittima gli altri all’esperimento dell’azione di reintegrazione con riduzione della cosa stessa al pristino stato, talché possa continuare a fornire quella utilitas alla quale era asservita anteriormente alla contestata modificazione senza che sia necessaria specifica prova del possesso di detta parte (che non abbia una sua autonomia rispetto all’edificio), quando risulti quello di una o più delle porzioni immobiliari in cui l’edificio stesso si articoli» (Cassazione civile, sez. II, 13 luglio 1993, n. 7691, in Arch. locazioni, 706; nella motivazione di tale pronunzia si legge tra l’altro: «… il Tribunale, nel ribaltare la decisione del primo giudice negando ai ricorrenti la tutela possessoria invocata ex art. 1168 cc, già riconosciuta, ha preso l’avvio da una premessa errata ed inaccettabile in materia di possesso, la quale, più che ridurre, contrasta chiaramente con la nozione di possesso, consacrata dal legislatore nell’art. 1140 cc e chiarita da una lunga ed elaborata giurisprudenza di questa Suprema Corte. Il Tribunale ha affermato, infatti, che ritenere che il possesso di una porzione immobiliare comporti necessariamente il possesso delle parti comuni dell’edificio significa introdurre in materia possessoria una protezione che ha natura inequivocabilmente petitoria. Ciò perché, sempre secondo il Tribunale, il possesso delle parti comuni dell’edificio non può essere astrattamente desunto, con inaccettabile parallelismo, dal contenuto tipico del diritto di proprietà, ma deve essere anch’esso rigorosamente e puntualmente provato. Tale affermazione viola il principio secondo il quale il possessore di un edificio possiede tutte le parti di esso che non hanno una loro autonomia, non essendo configurabile, per il medesimo soggetto, possessi distinti dalle singole parti che compongono la struttura dell’edificio. Le concrete modalità di godimento della cosa comune, desumibili dagli artt. 1102, 1120 e 1121 cc, assurgono a possibile contenuto di una posizione possessoria tutelabile contro tutte le attività con le quali uno dei compossessori unilateralmente introduca una modificazione che sopprima o turbi il compossesso degli altri. I condomini di un edificio hanno, sulle parti comuni dell’edificio, solo il possesso (corpore et animo) e quindi hanno diritto di agire, nel concorso di tutti i requisiti per tale azione, per la tutela possessoria in relazione ad atti compiuti da un condomino che interessino parti comuni. Da ciò discende che il secondo giudice, allorché ha negato la tutela possessoria ai Muraro per mancanza della specifica prova del possesso delle parti comuni, ha violato la regolamentazione giuridica apprestata dal nostro ordinamento in materia possessoria. In ulteriore violazione della regolamentazione anzidetta lo stesso giudice è caduto, allorché, malgrado il risultato negativo di tale indagine, è passato ugualmente alla ricerca degli estremi dello spoglio, negando la sussistenza di esso nella modifica del muro comune di spina e la possibilità di ordinare la reintegrazione della canna fumaria in conseguenza della sua demolizione. È stata esclusa nella fattispecie, in primo luogo, qualsiasi forma di molestia per il fatto che, operata la parziale eliminazione del muro comune, non si sono manifestati motivi di cedimenti, di assestamenti, fessurazioni ecc. sulle altre porzioni di fabbricato. A ciò va contrapposto che lo spoglio o la molestia sussistono per il solo fatto della eliminazione di una parte del muro comune, di cui il condominio ha il compossesso, senza bisogno di ulteriori effetti più o meno gravi. La violazione del possesso si verifica infatti con la modificazione della parte comune e della sua destinazione, in quanto proprio la modificazione la sottrae alla funzione specifica alla quale la parte è destinata e quindi al compossesso di tutti i condomini, nei quali è presente la volontà di tenere per sé le cose comuni, proprio per le funzioni strutturali, statiche ed estetiche che esse esplicano»); poiché deve, dunque, allo stato e in questa sede, presumersi, per difetto di titolo contrario, ex art. 1117, n. 1, cc, la proprietà condominiale delle scale (sul punto v. Cassazione civile, sez. II, 24 febbraio 1999, n. 1568, in Arch. locazioni, 606, con nota di De Tilla: «La presunzione di proprietà condominiale sulle strutture essenziali all’esistenza dell’edificio, elencate nell’art. 1117, n. 1, cc – nella specie scale – può esser superata soltanto da un titolo, proveniente da colui che ha costituito il condominio, ovvero da tutti i condomini successivamente, nel quale si affermi la proprietà esclusiva a favore del condomino, mentre la stessa presunzione non può esser superata dal concreto accertamento della destinazione delle suddette strutture all’uso esclusivo del singolo condomino»; Cassazione civile, sez. II, 12 febbraio 1998, n. 1498, in Foro it., I, 1898; conforme: Cassazione civile, sez. II, 12 novembre 1998, n. 11405: «Poiché, ai sensi dell’art. 1117, n. 1, cc, le scale, con gli annessi pianerottoli, essenziali alla funzionalità del fabbricato, sono presuntivamente di proprietà condominiale, pur se alcune rampe sono poste in concreto al servizio di singole proprietà, per dimostrarne l’appartenenza esclusiva al titolare di queste, è necessario un titolo contrario, contenuto non già nella compravendita della singole unità immobiliari, bensì nell’atto costitutivo del condominio»; Cassazione civile, sez. II, 12 febbraio 1998, n. 1498, in Giust. civ., 1999, I, 570: «Poiché ai sensi dell’art. 1117 n. 1, cc, le scale, con gli annessi pianerottoli , essenziali alla funzionalità del fabbricato, sono presuntivamente di proprietà condominiale, pur se alcune rampe sono poste in concreto al servizio di singole proprietà, per dimostrare l’appartenenza esclusiva al titolare di queste, è necessario un titolo contrario, contenuto non già nella compravendita delle singole unità immobiliari, bensì nell’atto costitutivo del condominio»; Corte d’appello di Firenze, 4 febbraio 1997, in Gius, 1998, 1897: «Poiché le scale sono annoverate tra le parti dell’edificio per le quali l’art. 1117 c.c. stabilisce la presunzione di proprietà comune e ad esse si applicano le regole stabilite dagli art. 1120 comma 2 e 1122 c.c., secondo cui sono vietate le innovazioni che rendano talune parti comuni inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino , deve essere considerata alterazione della cosa comune vietata dalla legge l’incorporazione del vano scale nell’appartamento di proprietà di un singolo condomino»; Cassazione civile, sez. II, 22 febbraio 1996, n. 1357, in Arch. locazioni, 509: «A norma dell’art. 1117, n. 1, cc le scale di un edificio condominiale , anche se più di una e poste concretamente al servizio di parti diverse dell’edificio stesso, vanno sempre considerate, in assenza di un contrario titolo negoziale, di proprietà comune di tutti i condomini, senza che a ciò sia di ostacolo il disposto dell’art. 1123, ultimo comma, cc, il quale, proprio sul presupposto di tale comunione, disciplina soltanto la ripartizione delle spese per la conservazione ed il godimento di esse, ispirandosi al criterio della utilità che ciascun condomino o gruppo di condomini ne trae»; Cassazione civile, sez. II, 22 marzo 1985, n. 2070, in Riv. giur. edilizia, I, 701: «Allorquando una delle cose elencate dalla norma dell’art. 1117 cc serva per obiettive caratteristiche strutturali e funzionali al godimento di una parte dell’edificio in condominio la quale formi oggetto di un autonomo diritto di proprietà, viene meno la presunzione legale di comunione della cosa, derivante
dalla sua destinazione all’uso comune in quanto in tale ipotesi la presunzione è vinta dalla particolare destinazione della cosa, così come è superata dalla presenza di un titolo contrario (nella specie, la SC ha annullato, in base all’enunciato principio, la decisione del merito che aveva attribuito la proprietà esclusiva del pianerottolo dell’ultimo piano dell’edificio condominiale al proprietario dell’unico appartamento, avente accesso da esso, senza la necessaria indagine sulle caratteristiche strutturali e funzionali del pianerottolo e della correlativa unica scala che serviva anche gli altri piani e i relativi appartamenti)»), deve, anche, ritenersi provato il (com)possesso dell’attrice sulle scale stesse; da ciò, in riferimento al tema del vano delle scale, il fondamento dell’azione possessoria proposta da Lorella Rodani.

2) Anche il primo motivo d’appello (ingiustamente, il primo giudice, aveva condannato l’attrice alle spese in riferimento a un capo della decisione, di cessazione della materia del contendere, nel quale la medesima era, virtualmente, vittoriosa) è fondato: il Tribunale ha omesso del tutto di delibare, come avrebbe dovuto, il fondamento del capo di domanda relativo all’eliminazione dello sfiato della cucina per effetto dei lavori eseguiti nell’appartamento dei convenuti; tale domanda era, a parere della Corte, probabilmente fondata poiché, alla luce della relazione tecnica del Geom. Francesco Martinelli (v., soprattutto, alle pgg 3 e 4), prodotta dall’attrice, non smentita dai dati emergenti dalla ctu, l’ostruzione risulta, effettivamente, quale conseguenza dei lavori eseguiti nell’appartamento dei convenuti; dunque i convenuti erano soccombenti virtuali rispetto al capo di domanda in questione.

3) Il terzo motivo d’appello (ingiustamente, il Tribunale, aveva rigettato la domanda risarcitoria, posto che l’ostruzione che aveva reso inabitabile l’appartamento attoreo era stata eliminata solo otto mesi dopo l’inizio del processo) è infondato, in considerazione del fatto che l’appellante non ha dato prova di non aver potuto abitare il proprio appartamento, per otto mesi, proprio, e solo, a causa dell’ostruzione in discorso (pare anzi, sul punto, fondata la difesa della controparte, secondo la quale un semplice aspiratore, collegato all’esterno attraverso la finestra della cucina, ben avrebbe potuto ovviare, transitoriamente, alla mancanza dello sfiato di cui si tratta, assolvendo agli obblighi di legge).

4) In definitiva, dunque, in parziale accoglimento dell’appello proposto da Lorella Rodani contro la sentenza 13 xi 2002, n. 811P, del Tribunale di Firenze, in parziale riforma della sentenza stessa, fermo il resto, deve pronunciarsi, in accoglimento dell’azione possessoria proposta dalla stessa Lorella Rodani, la condanna degli originari convenuti, Mario Terzoli e Franca Papini, alla rimessione in pristino del vano delle scale.

5) Le spese di lite, liquidate come in dispositivo (in conformità alle relative note delle spese, comprensive delle spese di ctp e della quota delle spese di ctu pagata dall’attrice), seguono, in solido, sia per il primo grado di giudizio che per il grado di appello, la soccombenza (in parte effettiva e in parte virtuale), assai prevalente rispetto a quella della controparte, di entrambi gli originali convenuti.

6) Anche le spese di ctu, già liquidate dal I giudice il 12/7/2000, debbono essere poste, definitivamente, a carico solidale degli attuali convenuti in appello.

P Q M

la Corte d’Appello di Firenze, prima sezione civile;

in parziale accoglimento dell’appello proposto da Lorella Rodani contro la sentenza 13 xi 2002, n. 811P, del Tribunale di Firenze;

in parziale riforma della sentenza stessa;

fermo il resto;

in accoglimento dell’azione possessoria proposta dalla stessa Lorella Rodani,

condanna,

gli originari convenuti, Mario Terzoli e Franca Papini alla rimessione in pristino del vano delle scale di cui trattasi;

condanna,

in solido, gli attuali convenuti in appello, Mario Terzoli e Franca Papini, a rifondere all’attuale appellante le spese del primo grado, che liquida in complessivi 8740,35 euro, di cui 6789,09 euro per diritti e onorari e 1951,26 euro per spese, comprese le spese di ctp e la quota delle spese di ctu pagata dall’attrice, oltre all’iva e al contributo previdenziale sull’imponibile di legge;

condanna,

in solido, gli stessi convenuti in appello, a rifondere all’appellante le spese del grado d’appello, che liquida in complessivi 12.973,85 euro, di cui 12.647,89 euro per diritti, onorari e spese generali e 325,96 euro per spese, oltre all’iva e al contributo previdenziale sull’imponibile di legge;

pone,

definitivamente, a carico solidale degli attuali convenuti in appello, le spese di ctu, già liquidate dal I giudice il 12/7/2000.

Così deciso in Firenze, nella camera di consiglio del 17/9/2004.

L’estensore

Il Presidente

Il Cancelliere

 

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