Uso del bene comune

“L’art. 1102 c.c. consente a ciascun proprietario di far un uso più intenso della cosa comune, a condizione che non sia alterata la funzione del bene e non impedito il pari uso”. Peraltro, “l’alterazione della funzione del bene deve essere effettiva e non può consistere in una semplice modificazione materiale del bene”, mentre “la nozione di pari uso della cosa comune (…) non va intesa in termini di assoluta identità dell’utilizzazione del bene da parte di ciascun comproprietario”. Ciò, infatti, “comporterebbe un sostanziale divieto per ogni partecipante di servirsi del bene a proprio esclusivo o particolare vantaggio pure laddove non risulti alterato il rapporto di equilibrio nel godimento dell’oggetto della comunione”. Sotto quest’ultimo profilo, “non si richiede allora che il pari uso debba consistere nel medesimo uso che possa invece farne solo il singolo che si trovi in un rapporto particolare e diverso con la cosa, ma di uso – da parte degli altri – che possa essere effettivo, occorrendo individuare in concreto e non solo in astratto i sacrifici alle facoltà di godimento che tale modifica possa apportare, senza dar rilievo ad una astratta possibilità di uso alternativo o un suo ipotetico depotenziamento”. Pertanto, “qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non faranno un pari uso della cosa comune, la modifica apportata dal condomino deve ritenersi legittima, atteso che, in una materia in cui è prevista la massima espansione dell’uso individuale, il limite al godimento di ciascuno dei condòmini è dato solo dagli interessi altrui e ove sia possibile prevedere che gli altri contitolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto”.

Così la Cassazione, con sentenza n. 980 del 10.1.2024.

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