Imposta di registro suppletiva per clausola penale

La Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Lombardia (ex Commissione tributaria regionale) con la sentenza n. 4087 del 25.10.2022 – ottenuta grazie all’interessamento della Confedilizia di Como – ha di nuovo affrontato la questione della debenza o meno dell’imposta suppletiva di registro in presenza nel contratto di locazione di una clausola penale. Nel caso di specie la clausola contestata è quella con la quale le parti hanno previsto il pagamento degli interessi moratori per tardivo pagamento dei canoni. L’Agenzia delle entrate, ritenendo tale clausola autonomamente tassabile (in quanto espressione di un autonomo negozio e quindi di autonoma capacità contributiva) ha mandato al contribuente un avviso di liquidazione di una maggiore imposta di registro. L’avviso è stato annullato dai giudici primo grado e successivamente l’Agenzia ha proposto appello, lamentando la violazione dell’art. 21, d.p.r. n. 131/1986 e il fatto che “il giudice non avrebbe considerato la volontarietà della clausola né la sua autonomia causale”.

Il Collegio ha ritenuto l’appello infondato nel merito, con le seguenti chiare e precise motivazioni.
Secondo la Corte di Giustizia per risolvere la questione occorre interrogarsi sul significato dell’espressione “autonoma disposizione”, posto che, da un punto di vista civilistico, il termine “disposizione” è concetto generico. Nel contesto dell’art. 21 citato, l’espressione non può inoltre che, in linea con la complessiva finalità di colpire un sintomo di capacità contributiva propria dell’ordinamento tributario, tenere conto dell’autonomo valore economico patrimoniale che una “disposizione” deve esprimere. Ogni clausola contrattuale potrebbe essere definita “disposizione” ma “evidentemente non ogni clausola rappresenta, per ciò solo, un autonomo negozio giuridico e neppure necessariamente esprime una autonoma operazione economica”. L’oggetto proprio del contratto di locazione – hanno spiegato i giudici – implica, secondo il tipo legale che lo disciplina, una “contestuale ma necessariamente economicamente vincolata pluralità di obbligazioni”. È evidente che tale pluralità inerisce, “per scelta legislativa e per significato economico, ai limiti fisiologici dell’unica causa tipica del contratto di locazione; la regolamentazione dei diversi aspetti ben può essere cristallizzata in molteplici ‘clausole’ o ‘disposizioni’ del contratto ma non rappresenta, né dal punto di vista giuridico né dal punto di vista economico, una pluralità di

negozi scindibili o autonomi”. Il contratto ha una disciplina che contempla, a seconda del tipo di locazione scelta, alcune disposizioni di carattere imperativo ed altre di carattere dispositivo o parzialmente dispositivo in favore di una parte, che i contraenti possono diversamente regolare. E Il fatto che le parti si avvalgano di questa facoltà, introducendo “volontariamente” delle disposizioni non significa che concludano autonomi negozi. Cosìricostruito il senso giuridico ed economico della clausola in contestazione e della disciplina applicata, pare al Collegio evidente che l’impostazione seguita dalle Entrate non sia condivisibile, attribuendo al generico termine di “disposizione” un significato assolutamente indeterminato fino a farlo coincidere con quello di “clausola negoziale” pur che sia, soluzione che non è coerente né con il significato strettamente giuridico di autonomo “negozio” o “causa negoziale” né con una sua lettura in termini lato sensu economici di “espressione di autonoma capacità contributiva”. Né è condivisibile per i Giudici l’analogia (in linea di principio vietata in malam partem in materia tributaria) della clausola in questione con la “condizione sospensiva” cui ricorrono le Entrate, per quantificare l’imposta dovuta. Infine, tra le motivazioni che hanno condotto la Corte a ritenere infondato l’appello, vi è anche la considerazione che la posizione della contribuente “appare ulteriormente immeritevole dell’applicata tassazione in quanto la stessa aveva chiesto l’applicazione della cedolare secca (…) ossia di un regime facoltativo ex lege sostitutivo di Irpef, addizionali e che esclude anche l’applicazione delle imposte di registro e bollo dovute per le registrazioni; ne consegue che, a maggior ragione, non si comprende l’impostazione dell’Ufficio che oltre a moltiplicare in modo improprio la tassazione ne ha altresì preteso all’applicazione in un contesto che la avrebbe esclusa”.

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