L'ABITABILITA' E' REQUISITO ESSENZIALE PER LA VENDITA DI UN APPARTAMENTO

Corte di Appello di Firenze, Sezione I, maggio 2005, n. 842 – SENZA ABITABILITA’ IL VENDITORE RISPONDE DEI DANNI

 

a cura del Dott. Francesco Barchielli

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 14.11.1988 Anna Maria Guidi conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Pistoia, Giuseppina Antoni e Corinna Benedettini, chiedendone la condanna in solido, a titolo di diminuzione del prezzo, al pagamento in suo favore della somma di £.50.000.000= (o di quella diversa che sarebbe stata ritenuta di giustizia) anche a titolo di risarcimento dei danni che assumeva aver subito in seguito alla difformità – accertata nell’agosto 1987, dopo la stipula della compravendita – relativamente alla casa di abitazione monofamiliare sita in Montecatini Terme, a lei alienata dalle convenute con atto rogato il 24 dicembre 1985 dal notaio Siciliani di Pisa: ciò in quanto, avendo le venditrici garantito che l’edificio era conforme alle prescrizioni edilizie (fatta eccezione per l’ampliamento dello scantinato, per il quale era stata presentata domanda di sanatoria al Comune), dopo la stipula del rogito, era emerso che il Comune non avrebbe concesso la sanatoria né rilasciato il certificato di abitabilità perché l’immobile era privo di idonea rete fognaria.

Costituitasi in giudizio, la convenuta chiedeva il rigetto della domanda siccome infondata.

Quindi, all’esito dell’istruzione articolatasi nella produzione di documenti e nell’espletamento di CTU, con sentenza del 30 maggio 2002 il Tribunale pistoiese – sezione stralcio e in persona del G.O.A. dr. Bafunno – in accoglimento della domanda attrice condannava la convenuta Giuseppina Antoni, “in proprio e quale erede di Benedettini Corinna” deceduta nelle more del giudizio, al pagamento in favore di Anna Maria Guidi della somma di € 17.55,53= occorrente per l’esecuzione dei lavori – necessari per l’abitabilità dell’immobile venduto – di allacciamento degli scarichi alle fognature comunali, oltre interessi legali e rimborso delle spese di lite.

Contro tale sentenza propone appello la Antoni, chiedendone, previa ammissione di CTU, la riforma nei sensi di cui in epigrafe sulla base dei seguenti motivi: 1)

la sentenza è nulla per i seguenti errori, omissioni e travisamenti di parti essenziali: a) le conclusioni rese da parte convenuta all’udienza del 3.05.2001 sono riportate in maniera infedele e in parte travisata; b) è erroneamente indicata la legge n.17 anziché n.47; c) è mancata la decisione su una parte delle conclusioni di parte convenuta; d) la data della sentenza risultante in calce alla stessa è quella del 22.03.2001 e, considerato che l’udienza di precisazione delle conclusioni è del 3.05.2001, se ne deve dedurre che la sentenza è precedente alla precisazione delle conclusioni; e) nello svolgimento del processo vengono indicati come parti dei soggetti – tali Santini Fedora, Santini Sauro e Santini Renzo – completamente estranei alla causa; 2)

il Tribunale ha condannato essa appellante “quale erede della sig.ra Benedettini Corinna”, usufruttuaria per la quota di 1/3 deceduta in corso di causa, mentre non sussiste tale qualità di erede né si è essa mai costituita in giudizio come tale: inoltre la domanda di condanna solidale doveva essere respinta, perché l’obbligazione dedotta non aveva natura solidale ma “per quote e ruoli”; 3)

nel merito la domanda doveva essere rigettata in quanto era cessata la materia del contendere, avendo controparte ottenuto l’utilità cui aspirava, cioè la piena agibilità dell’abitazione, sulla quale non incide assolutamente il mancato allacciamento degli scarichi alle fognature comunali; circostanza, questa, di cui la Bonaguidi era del resto a perfetta conoscenza per aver acquistato l’immobile – il cui stato è attualmente diverso da quello in cui fu compravenduto – nello stato di fatto e di diritto in cui si trovava.

Resiste l’appellata Anna Maria Guidi. Quindi, sulle conclusioni riportate in epigrafe, all’udienza del 21.01. 2005 la causa è passata in decisione.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

L’appello è palesemente infondato.

Pretestuose e prive di giuridico fondamento sono infatti le doglianze di cui al primo motivo.

Per ciò che concerne la asserita infedele trascrizione delle conclusioni della convenuta, è assorbente e decisivo il rilievo che, secondo consolidata giurisprudenza, << la mancata o incompleta trascrizione, nell’epigrafe della sentenza, delle conclusioni delle parti costituisce una semplice imperfezione formale irrilevante ai fini della validità della sentenza, occorrendo, perché siffatta omissione od incompletezza possa tradursi in vizio tale da determinare un effetto invalidante sulla sentenza, che l’omissione abbia in concreto inciso sull’attività del giudice, nel senso di avere comportato o una mancata pronuncia sulle domande o sulle eccezioni delle parti oppure un difetto di motivazione in ordine a punti decisivi prospettati >> (Cassazione civile, sez. II, 22 luglio 2004, n. 13785).

Si è al riguardo ribadito che << l’omessa trascrizione delle conclusioni delle parti e l’inadeguata esposizione dello svolgimento del processo di per sè non costituiscono motivo di nullità della sentenza, se le omissioni e le carenze espositive non hanno inciso in concreto sul processo decisionale del giudice, determinando una mancata pronunzia sulle domande o eccezioni proposte dalle parti, oppure un difetto di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia >> (Cassazione civile, sez. II, 27 febbraio 2004, n. 4015; Cassazione civile, sez. II, 12 settembre 2000, n. 12036).

Quanto poi alla asserita mancata pronuncia del primo giudice su dette conclusioni, non solo risulta, in fatto, che sulle istanze istruttorie avanzate in tale sede da parte convenuta il G.O.A., riservatasi la decisione, pronunciò l’ordinanza 12.09.2001 con la quale tratteneva la causa in decisione e in tal modo implicitamente respingeva siccome superflue tali richieste, ma è assorbente, in diritto, il rilievo che << il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., ed è rilevante ai fini di cui all’art. 360, n. 4 stesso codice, si configura esclusivamente con riferimento a domande, eccezioni o assunti che richiedano una statuizione di accoglimento o di rigetto, e non anche in relazione ad istanze istruttorie per le quali l’omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione >> (Cassazione civile, sez. un., 18 dicembre 2001, n. 15982).

Sotto tale profilo, non può in questa sede che ribadirsi ed esplicitarsi la evidente superfluità delle “richieste istruttorie” in questione (rinnovo e/o supplemento di CTU) alla luce della esaustività delle risultanze processuali già in atti, riconosciuta del resto – in sostanziale auto-confutazione della censura in esame – dalla stessa appellante a pag. 8 dell’atto di impugnazione.

E mentre non merita soffermarsi sugli errori – estrinseci e totalmente irrilevanti nel processo decisionale – dell’indicazione (n.17/85) della legge regolatrice della materia (n.47/85) nella trascrizione delle conclusioni ovvero dell’indicazione come convenuti, nello svolgimento del processo di soggetti estranei al giudizio, per ciò che concerne la data di “decisione” della sentenza –indicata come “22.3.2001”, vale adire anteriore a quella di precisazione delle conclusioni (3.5.2001) – si tratta all’evidenza di un mero errore materiale, dal momento che è impossibile abbia il GOA redatto la sentenza in data anteriore a quella della precisazione delle conclusioni, come adombra parte appellante: non è infatti dato vedere come abbia potuto il GOA trascrivere, se pur inesattamente, le conclusioni precisate dalle parti all’udienza del 3 maggio 2001 e, soprattutto, redigere la già menzionata ordinanza del 12 settembre 2001 con la quale, disattendendo le richieste istruttorie, tratteneva la causa in decisione. Tale errore materiale, del quale nessuna parte chiede la correzione, è comunque di portata trascurabile, ove si tenga conto del principio secondo cui << quando la decisione sia assunta dal tribunale in composizione monocratica ai sensi degli art. 281 bis ss. c.p.c., difetta un momento deliberativo che assuma autonoma rilevanza, come nel caso della deliberazione collegiale disciplinata dall’art. 276 c.p.c. Ne consegue che, essendo la sentenza formata solo con la sua pubblicazione a seguito del deposito in cancelleria ex art. 133 c.p.c., esclusivamente a tale data, e non anche a quella diversa ed anteriore eventualmente indicata in calce all’atto come data della decisione, può farsi riferimento per stabilire se la causa sia stata decisa prima o dopo la scadenza dei termini previsti dall’art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie in replica e se dunque vi sia stata o no violazione dei diritti della difesa >> ( Cassazione civile, sez. III, 18 giugno 2003, n. 9698; Cass. n.4356/04).

Né maggior fondamento presenta il secondo motivo: posto che la stessa odierna appellante dava atto nella comparsa conclusionale di primo grado che “Nelle more del giudizio venivano a decedere la sig.ra Benedettini Corinna, con conseguente consolidazione nella persona della sig.ra Antoni Cav. Giuseppina della posizione di proprietario-venditore e dell’avv. A. Baldini ritualmente sostituito dall’Avv. R. Nocent..”, nessun rilievo presenta il fatto che il Tribunale abbia condannati la Antoni “in proprio e quale erede di Benedettini Corinna”. A parte che non vi è certezza che tale qualifica di erede sia errata (secondo quanto non contestatamene affermato da parte appellata, la Antoni è figlia della Benedettini), anche se detta qualifica non è sicura, manca in ogni caso l’interesse ad impugnare in capo alla Antoni, la quale è stata condannata (anche) quale piena proprietaria dell’immobile venduto a seguito della consolidazione per morte della usufruttuaria parziale Benedettini, oltre che di obbligata solidale; fuor di luogo essendo, alla luce della menzionata situazione come riferita dalla stessa odierna appellante, ogni questione sulla necessità di declaratoria di interruzione del processo.

Per ciò che concerne il merito (ultimo motivo), si rammenta, in diritto, che << nella vendita di immobile destinato ad abitazione, il certificato di abitabilità costituisce requisito giuridico essenziale del bene compravenduto poiché vale a incidere sull’attitudine del bene stesso ad assolvere la sua funzione economico – sociale, assicurandone il legittimo godimento e la commerciabilità. Pertanto, il mancato rilascio della licenza di abitabilità integra inadempimento del venditore per consegna di “aliud pro alio”, adducibile da parte del compratore in via di eccezione, ai sensi dell’art. 1460 c.c., o come fonte di pretesa risarcitoria per la ridotta commerciabilità del bene, a meno che egli non abbia espressamente rinunciato al requisito dell’abitabilità o esonerato comunque il venditore dall’obbligo di ottenere la relativa licenza >> (Cassazione civile, sez. II, 25 febbraio 2002, n. 2729).

In particolare, il venditore di un bene immobile destinato ad abitazione, in assenza di patti contrari, ha l’obbligo di dotare tale bene della licenza di abitabilità senza della quale esso non acquista la normale attitudine a realizzare la sua funzione economico – sociale, e tale requisito giuridico essenziale ai fini del legittimo godimento e della commerciabilità del bene non può essere sostituito dalla definizione della pratica di condono e da altro, in quanto chi acquista un immobile – salvo che sia reso espressamente edotto della esistenza di qualche problema amministrativo o urbanistico – ha diritto alla consegna di un appartamento in tutto conforme alle leggi, ai regolamenti ed alla concessione edilizia e per il quale sia stata, quindi, rilasciata la licenza di abitabilità; conseguentemente la mancata consegna di tale licenza implica un inadempimento che, sebbene non sia tale da dare necessariamente luogo a risoluzione del contratto, può comunque essere fonte di un danno risarcibile ovvero costituire il fondamento dell'”exceptio” prevista dall’art. 1460 c.c., per il solo fatto che si è consegnato un bene che presenta problemi di commerciabilità, essendo irrilevante la circostanza che l’immobile sia stato costruito in conformità delle norme igienico-sanitarie, della disciplina urbanistica e delle prescrizioni della concessione ad edificare, ovvero che sia stato concretamente abitato (v.Cassazione civile, sez. II, 3 luglio 2000, n. 8880; v. anche Cassazione civile, sez. II, 19 luglio 1999, n. 7681, secondo cui << il venditore di un bene immobile destinato ad abitazione ha l’obbligo di dotare tale bene della licenza di abitabilità, senza la quale esso non acquista la normale attitudine a realizzare la sua funzione economico-sociale, e tale requisito giuridico, essenziale ai fini del legittimo godimento e della commerciabilità del bene, non può essere sostituito dalla definizione della pratica di condono, in quanto chi acquista un immobile – salvo sia reso espressamente edotto della esistenza di qualche problema amministrativo o urbanistico – ha diritto alla consegna di un immobile in tutto conforme alle leggi, ai regolamenti ed alla concessione edilizia e per il quale sia stata quindi rilasciata la licenza di abitabilità; conseguentemente, la mancata consegna della medesima implica un inadempimento che, sebbene non sia tale da dare necessariamente luogo a risoluzione del contratto, può comunque essere fonte di un danno risarcibile configurabile anche nel solo fatto di aver ricevuto un bene che presenta problemi di commerciabilità >>).

In fatto, si rileva che, secondo quanto accertato dal CTU, il Comune di Montecatini Terme ha chiaramente precisato che il rilascio della concessione a sanatoria n.227 del 20.04.98 è avvenuta ai soli fini urbanistici, cioè per le irregolarità compiute nel seminterrato, ma non ha annullato gli effetti dell’intimazione del 1° marzo 1996, poiché la mancanza degli allacciamenti alla fognatura comunale non consentiva l’abitabilità dei locali condonati.

L’appello va pertanto respinto.

Le spese ulteriori del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

La Corte, definitivamente pronunziando, rigetta l’appello proposto da Giuseppina Antoni contro la sentenza del Tribunale di Pistoia in data 30 maggio 2002 e condanna detta appellante a rimborsare all’appellata Anna Maria Guidi le spese ulteriori del giudizio, che si liquidano come da notula in complessivi € 3.161,09=, di cui € 1.800,00= per onorari ed € 998,14= per diritti, oltre IVA e CAP di legge.

 

Firenze, 21 gennaio 2005

 

Il Consigliere estensore Il Presidente

 

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