Sentenza 196/2004 – Udienza Pubblica del 11/05/2004 – condono edilizio

Sentenza 196/2004 – Udienza Pubblica del 11/05/2004 – Sentenza 196/2004 – Udienza Pubblica del 11/05/2004

 

Sentenza 196/2004
Giudizio

Presidente ZAGREBELSKY
Relatore DE SIERVO

Udienza Pubblica del 11/05/2004
Decisione del 24/06/2004

Deposito del 28/06/2004
Pubblicazione in G. U.

 

Ricorsi in via principale
76/2003 81/2003 82/2003 83/2003 87/2003 89/2003 90/2003 6/2004 8/2004 10/2004 11/2004 12/2004 13/2004 14/2004

Massime:
SENTENZA N. 196

 

ANNO 2004

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

– Gustavo ZAGREBELSKY Presidente

 

– Valerio ONIDA Giudice

 

– Carlo MEZZANOTTE “

 

– Fernanda CONTRI “

 

– Guido NEPPI MODONA “

 

– Piero Alberto CAPOTOSTI “

 

– Annibale MARINI “

 

– Franco BILE “

 

– Giovanni Maria FLICK “

 

– Ugo DE SIERVO “

 

– Romano VACCARELLA “

 

– Alfio FINOCCHIARO “

– Alfonso QUARANTA “
ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), e dell’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 come risultante dalla conversione ad opera della legge 24 novembre 2003, n. 326 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, recante disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), promossi con due ricorsi della Regione Campania, rispettivamente notificati il 17 ottobre 2003 e il 22 gennaio 2004, depositati in cancelleria il 25 ottobre e il 30 gennaio successivi ed iscritti al n. 76 del registro ricorsi 2003 ed al n. 14 del registro ricorsi 2004, con due ricorsi della Regione Marche, rispettivamente notificati il 13 novembre 2003 e il 21 gennaio 2004, depositati in cancelleria il 19 novembre e il 26 gennaio successivi ed iscritti al n. 81 del registro ricorsi 2003 ed al n. 8 del registro ricorsi 2004, con due ricorsi della Regione Toscana, rispettivamente notificati il 12 novembre 2003 ed il 21 gennaio 2004, depositati in cancelleria il 21 novembre e il 29 gennaio successivi ed iscritti al n. 82 del registro ricorsi 2003 ed al n. 10 del registro ricorsi 2004, con due ricorsi della Regione Emilia-Romagna, rispettivamente notificati il 20 novembre 2003 e il 23 gennaio 2004, depositati in cancelleria il 26 novembre e il 29 gennaio successivi ed iscritti al n. 83 del registro ricorsi 2003 ed al n. 13 del registro ricorsi 2004, con due ricorsi della Regione Umbria, rispettivamente notificati il 25 novembre 2003 e il 23 gennaio 2004, depositati in cancelleria il 2 dicembre e il 29 gennaio successivi ed iscritti al n. 87 del registro ricorsi 2003 e al n. 11 del registro ricorsi 2004, con due ricorsi della Regione Friuli-Venezia Giulia, rispettivamente notificati il 27 novembre 2003 e il 22 gennaio 2004, depositati in cancelleria il 4 dicembre e il 30 gennaio successivi ed iscritti al n. 89 del registro ricorsi 2003 ed al n. 12 del registro ricorsi 2004, con un ricorso della Regione Basilicata, notificato il 1° dicembre 2003, depositato in cancelleria il 5 dicembre successivo ed iscritto al n. 90 del registro ricorsi 2003 e con un ricorso della Regione Lazio, notificato il 20 gennaio 2004, depositato in cancelleria il 23 gennaio successivo ed iscritto al n. 6 del registro ricorsi 2004.

 

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri nonché gli atti di intervento del Comune di Salerno, del Comune di Ischia e del Comune di Lacco Ameno, dell’Associazione Italiana per il World Wide Fund For Nature (WWF) ONLUS e del CODACONS, del Comune di Roma;

 

udito nell’udienza pubblica dell’11 maggio 2004 il Giudice relatore Ugo De Siervo;

 

uditi gli avvocati Vincenzo Cocozza per la Regione Campania, Stefano Grassi per la Regione Marche, Lucia Bora e Fabio Lorenzoni per la Regione Toscana, Giandomenico Falcon per la Regione Emilia-Romagna, per la Regione Umbria e per la Regione Friuli-Venezia Giulia, Gennaro Terracciano per la Regione Basilicata, Pietro Pesacane per la Regione Lazio, Lorenzo Bruno Molinaro per il Comune di Ischia e per il Comune di Lacco Ameno, Antonio Brancaccio per il Comune di Salerno, Alessio Petretti per il World Wide Fund For Nature (WWF) ONLUS, Sebastiano Capotorto per il Comune di Roma, Nicolò Paoletti per il CODACONS e l’avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. – Le Regioni Campania (con ricorso notificato il 17 ottobre 2003, depositato il 25 ottobre 2003 e iscritto al reg. ricorsi n. 76 del 2003), Marche (con ricorso notificato il 13 novembre 2003, depositato il 19 novembre 2003 e iscritto al reg. ricorsi n. 81 del 2003), Toscana (con ricorso notificato il 12 novembre 2003, depositato il 25 novembre 2003 e iscritto al reg. ric. 82 del 2003), Emilia-Romagna (con ricorso notificato il 20 novembre 2003, depositato il 26 novembre 2003 e iscritto al reg. ricorsi n. 83 del 2003), Umbria (con ricorso notificato il 25 novembre 2003, depositato il 2 dicembre 2003 e iscritto al reg. ricorsi n. 87 del 2003) e Friuli-Venezia Giulia (con ricorso notificato il 27 novembre 2003, depositato il 4 dicembre 2003 e iscritto al reg. ricorsi n. 89 del 2003) hanno impugnato l’art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), ed in particolare i commi: 1, 2, 3, 5, 14-20; 25-31; 32 e seguenti (reg. ric. n. 76 del 2003); 1, 2, 3, 5, 6, 9, 10, 13, 14-20; 24-41 (reg. ric. n. 81 del 2003); 1, 3, 5, 6, 9, 10, 14-20; 24, 25-40 (reg. ric. n. 82 del 2003); 1, 2, 3, 4, 25, 26, lettera a), 28, 32, 35, 37, 38, 40, nonché l’Allegato 1 (reg. ric. nn. 83, 87 e 89 del 2003). La Regione Marche ha impugnato anche l’art. 32 citato nel suo complesso.

 

2. – Preliminarmente le ricorrenti evidenziano come – dopo la riapertura dei termini del condono edilizio previsto dalla legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), disposta per effetto dell’art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) – l’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 abbia nuovamente aperto detti termini, riproponendo, con qualche modifica, le regole sostanziali e procedurali dei due precedenti condoni edilizi, di modo che – sostiene la Regione Emilia-Romagna – “sommando tutti i periodi, ne risulta che […] chiunque negli ultimi venti anni abbia effettuato opere edilizie in spregio alle regole sostanziali e formali di governo del territorio ha potuto o potrà trarre vantaggio dal proprio illecito”.

 

Sostengono le ricorrenti che il comma 2 della norma censurata dispone che la normativa in questione è posta “nelle more dell’adeguamento della disciplina regionale al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380”, e facendo comunque “salve le competenze delle autonomie locali sul governo del territorio”. Su tale base, alcune delle Regioni (ad esempio, la Regione Toscana) sostengono che quanto appena evidenziato dovrebbe comportare l’inapplicabilità del medesimo art. 32 nei territori di quelle Regioni che abbiano già provveduto a dotarsi di una disciplina coerente con le linee guida fornite dallo Stato mediante il citato testo unico. In tale evenienza verrebbe meno lo stesso motivo di doglianza delle Regioni in questione. Le censure, viceversa, sono proposte per il caso in cui si ritenesse che la prescrizione di cui al comma 2 citato non valga ad escludere le Regioni che si sono già adeguate al disposto del testo unico dall’ambito di applicabilità della disciplina impugnata. In relazione al citato comma 2, la Regione Marche ritiene “del tutto formale e pretestuoso” il richiamo compiuto da tale disposizione al testo unico dell’edilizia, in quanto quest’ultimo “non ha innovato il sistema normativo, ma ha confermato e riordinato i principi vigenti senza peraltro prevedere alcuna esigenza di sanatoria”.

 

Il fulcro della disciplina oggetto delle doglianze regionali è contenuto nel comma 25 dell’art. 32, il quale prevede che “le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dall’articolo 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni, nonché dal presente articolo, si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31 marzo 2003 e che non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento superiore a 750 metri cubi”, e che “le suddette disposizioni trovano altresì applicazione alle opere abusive realizzate nel termine di cui sopra relative a nuove costruzioni residenziali non superiori a 750 metri cubi per singola richiesta di titolo abilitativo edilizio in sanatoria”. Le ricorrenti riconoscono che il comma 3 dell’art. 32 afferma che “le condizioni, i limiti e le modalità del rilascio del (…) titolo abilitativo sono stabilite dal presente articolo e dalle normative regionali”, evidenziando tuttavia come le minute e dettagliate disposizioni del medesimo art. 32 lascino margini di manovra del tutto esigui alle autonomie regionali, per di più da esercitare entro il termine temporale assai ristretto fissato dal comma 33.

 

In definitiva, gli spazi nei quali sarebbe ammesso l’intervento regionale sarebbero: a) l’aumento sino ad un massimo del 10 per cento della misura dell’oblazione; b) l’incremento degli oneri di concessione sino ad un massimo del 100 per cento; c) la individuazione delle modalità di attuazione della regola che consente a coloro che intendano eseguire in tutto o in parte le opere di urbanizzazione primaria di “detrarre dall’importo complessivo quanto già versato, a titolo di anticipazione degli oneri concessori”; d) la possibilità di prevedere l’obbligo di allegare “ulteriore documentazione” alla domanda di condono; e) la possibilità di consentire con proprie leggi la sanatoria degli abusi di minore gravità (restauro e risanamento conservativo, nonché la semplice manutenzione straordinaria), mentre per gli abusi più gravi non vi sarebbe alcun margine di scelta per le autonomie regionali.

 

3. – Con un primo gruppo di censure le Regioni lamentano la violazione dell’art. 117 della Costituzione. In particolare, la Regione Marche sostiene che la disciplina in esame dovrebbe essere collocata nell’ambito della materia “edilizia”, la quale, non essendo “nominata” tra le materie dell’art. 117 Cost., ricadrebbe automaticamente nella competenza legislativa residuale delle Regioni. Ciò basterebbe per ritenere costituzionalmente illegittime le disposizioni impugnate, in quanto dettate in un ambito nel quale lo Stato non avrebbe alcuna potestà legislativa. Anche a non voler considerare la disciplina dell’edilizia come afferente ad una materia autonoma, secondo la Regione Marche, essa andrebbe comunque collocata nell’ambito dell’urbanistica, la quale – dovendo essere distinta, sulla base di quanto appena evidenziato, dal “governo del territorio” – non potrebbe che essere considerata materia di competenza residuale delle Regioni. Le conclusioni sarebbero dunque le medesime di quelle più sopra richiamate, ossia la illegittimità costituzionale di qualunque normativa statale in detto ambito materiale.

 

Analoghe sono le argomentazioni svolte dalla Regione Campania, la quale – adducendo in termini meramente formali anche la violazione dell’art. 114 Cost. – considera la normativa oggetto del presente giudizio ricadente nell’ambito dell’urbanistica, e quindi afferente alla competenza residuale delle Regioni.

 

Quale ulteriore ipotesi interpretativa le Regioni Marche e Campania suggeriscono la collocazione della disciplina impugnata nell’ambito della materia “governo del territorio”, contemplata dall’art. 117, terzo comma, Cost. A tale conclusione si giungerebbe considerando l’urbanistica – cui afferirebbe l’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 – non quale materia autonoma ma ricompresa in tale, più ampia, qualificazione. A sostegno di tale impostazione viene richiamata la sentenza di questa Corte n. 303 del 2003, nella quale si affermerebbe che la disciplina dei titoli abilitativi alla edificazione rientrerebbe nell’ambito dell’urbanistica, che a sua volta sarebbe compresa nel “governo del territorio”.

 

Anche collocandosi in tale ordine di idee, l’illegittimità costituzionale della disciplina impugnata sarebbe del tutto evidente. Ciò in quanto, nell’ambito della materia “governo del territorio”, lo Stato potrebbe porre solo norme idonee ad esprimere principi fondamentali. E tali non potrebbero certo essere considerate le norme che prevedono e regolano la sanatoria edilizia.

 

Le ricorrenti, infatti, evidenziano come la giurisprudenza costituzionale abbia a più riprese sottolineato che principi fondamentali possono essere ritenuti “solo i nuclei essenziali del contenuto normativo che quelle disposizioni esprimono per i principi enunciati o da esse desumibili” e che, comunque, i principi fondamentali devono essere caratterizzati da “un livello di maggior astrattezza rispetto alle regole positivamente stabilite dal legislatore regionale” (vengono richiamate al riguardo le sentenze di questa Corte n. 482 del 1995 e n. 65 del 2001).

 

La disciplina impugnata, invece, sarebbe senz’altro qualificabile come normativa di dettaglio, contenendo una disciplina particolareggiata del procedimento di rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria. Le ricorrenti ritengono, in sintesi, che la normativa posta dalle disposizioni impugnate sia illegittima, in quanto “minuziosa, dettagliata, autoapplicativa, direttamente operativa nei confronti dei privati interessati, laddove, invece, i principi fondamentali della materia dovrebbero essere rivolti al legislatore regionale che poi dovrebbe articolare la normativa applicabile ai terzi interessati”. Né essa sarebbe stata configurata come normativa cedevole rispetto alle leggi regionali.

 

Più in generale, secondo le ricorrenti, sarebbe la stessa idea di condono edilizio a porsi irrimediabilmente in contrasto con la possibilità di qualificare le norme che lo prevedono quali principi fondamentali della materia.

 

A questo riguardo le Regioni richiamano, tra le altre, le sentenze di questa Corte n. 369 del 1988, n. 416 del 1995 e n. 427 del 1995. Da tali decisioni emergerebbe con chiarezza come, secondo il giudice costituzionale, il condono edilizio possa giustificarsi esclusivamente quale misura del tutto straordinaria ed eccezionale, in quanto tale non reiterabile, e tale da dover trovare – per poter essere ritenuto conforme a Costituzione – specifiche giustificazioni in punto di ragionevolezza, le quali, pur se ritenute sussistenti nel caso dei precedenti condoni, sarebbero del tutto assenti nel caso presente.

 

La correttezza di tali argomentazioni, peraltro, sarebbe corroborata – secondo le ricorrenti – da quelle decisioni della Corte costituzionale le quali evidenziano che, affinché si possa discorrere di principio fondamentale, è necessario che la norma in questione esprima una consapevole scelta di politica legislativa, o, quantomeno, sia in grado di orientare i futuri interventi legislativi: ciò che, con tutta evidenza, mancherebbe nel caso della sanatoria. Anzi, quest’ultima si porrebbe in contrasto con i principi fondamentali vigenti nella materia in questione, travolgendoli senza appello, dal momento che tali principi contemplerebbero, invece, proprio l’obbligo di perseguire e sanzionare gli abusi, nonché la necessità di ridurre ed eliminare per quanto possibile le conseguenze lesive di questi ultimi.

 

Né sarebbe possibile considerare la disciplina impugnata come espressione della competenza statale concernente l’ordinamento penale. Al riguardo, la Regione Emilia-Romagna ritiene che “l’irriducibilità del condono edilizio alla questione penale [sia] già stata affermata [dalla Corte costituzionale] nel momento stesso in cui essa ha dichiarato ammissibile il ricorso regionale avverso l’art. 39 della legge n. 724 del 1994”. In secondo luogo – espone la Regione – in contestazione non è affatto l’esclusività del potere statale nel disporre del “potere di clemenza in materia penale”; viceversa, ad essere oggetto di contestazione “è che disponendo di ciò di cui lo Stato poteva disporre, lo Stato abbia anche disposto di ciò di cui non poteva disporre, cioè della sanzionabilità in via amministrativa degli illeciti edilizi”. Secondo la Regione Marche, nel caso di specie, lo Stato, utilizzando una norma penale di favore, in realtà “disciplinerebbe procedimenti e norme sostanziali relative all’ordinato assetto del territorio e al corretto esercizio delle attività edilizie, determinando la violazione delle competenze in materia di governo del territorio”.

 

Neanche in base alla norma costituzionale concernente il “coordinamento della finanza pubblica” sarebbe possibile ritenere lo Stato legittimato a dettare norme quali quelle impugnate. In primo luogo, non sarebbe giustificabile in base a tale competenza “asservire” la materia urbanistica ed edilizia alle esigenze finanziarie. In secondo luogo, in vista del coordinamento della finanza pubblica, lo Stato potrebbe solo porre principi fondamentali; e la normativa impugnata non sarebbe in alcun modo classificabile quale determinazione di principi fondamentali.

 

4. – Diverse sono le argomentazioni svolte dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, in considerazione dei caratteri di specialità che contraddistinguono il suo regime di autonomia.

 

In particolare, la ricorrente afferma di essere dotata – ai sensi dell’art. 14, numero 12, della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia) – di competenza legislativa esclusiva in materia urbanistica, ossia nella materia in cui ricadrebbe la disciplina posta dalle disposizioni impugnate. Quanto alle funzioni amministrative connesse, esse spetterebbero alla Regione in virtù dell’art. 8 dello Statuto, e sarebbero state ad essa trasferite dall’art. 27 del d.P.R. 25 novembre 1975, n. 902 (Adeguamento ed integrazione delle norme di attuazione dello statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia). Quanto alla normativa regionale, la ricorrente espone di aver fatto uso della propria potestà primaria con la legge regionale 19 novembre 1991, n. 52 (Norme regionali in materia di pianificazione territoriale ed urbanistica).

 

La Regione Friuli-Venezia Giulia ritiene, nel proprio ricorso, essenzialmente ambigua la clausola che dispone la salvezza delle attribuzioni previste dagli Statuti per le Regioni ad autonomia speciale. In particolare, dal comma 4 dell’art. 32 – nel quale è contenuta tale clausola – non sarebbe possibile desumere con chiarezza la applicabilità o meno della normativa dettata con le disposizioni oggetto del presente giudizio. Nel ricorso si evidenzia che, ove si ritenesse di interpretare il citato comma 4 nel senso di escludere la applicabilità dell’art. 32 del d.l. n. 269 alle Regioni speciali, le doglianze esposte nello stesso ricorso “verrebbero meno”.

 

Ad avviso della Regione Friuli-Venezia Giulia, stante la propria potestà legislativa primaria nella materia sulla quale insiste la disciplina impugnata, potrebbero vincolare legittimamente l’autonomia regionale esclusivamente la Costituzione, i principi generali dell’ordinamento giuridico e le norme fondamentali di grande riforma economico-sociale. Tra queste, secondo la ricorrente, non potrebbe certo essere annoverata la previsione di un condono edilizio. Quest’ultimo, infatti, sarebbe incompatibile sia con il concetto di riforma che con quello di norma fondamentale.

 

5. – Tutte le ricorrenti censurano la disciplina impugnata anche per violazione dell’art. 118 Cost.; in particolare, le Regioni Campania, Marche e Toscana affermano che ciò deriverebbe dal fatto che la disciplina del condono edilizio determinerebbe la vanificazione degli interventi di pianificazione e controllo locale, nonché la necessità di apprestare appositi strumenti urbanistici e soluzioni di governo del territorio che tengano conto delle conseguenze della disciplina statale impugnata, cosicché le Regioni e gli enti locali sarebbero costretti a subire anziché governare le destinazioni urbanistiche del territorio.

 

6. – In subordine, la Regione Campania sostiene che la normativa impugnata sarebbe illegittima anche perché – ove la si volesse ritenere idonea ad esprimere principi fondamentali – questi ultimi non potrebbero essere posti mediante un decreto-legge. Il decreto-legge, in altre parole, in quanto giustificato esclusivamente dall’esistenza della straordinaria necessità ed urgenza di provvedere, non sarebbe costituzionalmente legittimo ove prevedesse principi fondamentali, dal momento che la struttura normativa dei principi non sarebbe idonea a perseguire obiettivi con assoluta urgenza. In questa prospettiva, risulterebbe dunque violato l’art. 77 Cost., dal momento che difetterebbero i presupposti costituzionali per l’esercizio della decretazione d’urgenza (il che, in tesi, è sostenuto anche dalla Regione Marche, secondo la quale l’esistenza dell’urgenza sarebbe smentita dalle modalità e dai tempi di attuazione della stessa disciplina). Ancora, secondo la Regione Campania, l’art. 32 impugnato sarebbe incostituzionale in quanto il decreto-legge nel quale è contenuto difetterebbe del requisito, costituzionalmente necessario, della omogeneità del contenuto.

 

7. – Altro motivo di doglianza esposto nei ricorsi regionali è la pretesa violazione dell’autonomia organizzativa, nonché dell’art. 119 Cost. e dell’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali in esso contemplata.

 

Il condono edilizio – evidenziano le Regioni – è disposto in vista di esigenze finanziarie del bilancio statale, ma comporta spese particolarmente ingenti, e di vario genere, a carico delle finanze delle autonomie territoriali, a fronte di una compartecipazione al gettito delle operazioni di condono che risulterebbe decisamente esigua.

 

Tali spese sarebbero – come nota la Regione Campania – presumibilmente superiori a quanto lo stesso condono è in grado di far recuperare all’erario statale e sarebbero individuabili, in primo luogo, nelle risorse necessarie allo svolgimento delle attività amministrative finalizzate alla attuazione della normativa impugnata, che è demandata alle amministrazioni regionali e locali. In secondo luogo, l’autonomia finanziaria sarebbe violata anche perché sarebbe necessario – nel caso in cui venissero concessi titoli di abilitazione a edificare in sanatoria – procedere alla realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria, il cui costo peserebbe non poco sui bilanci delle autonomie territoriali.

 

8. – Secondo la Regione Marche, inoltre, le disposizioni impugnate violerebbero il principio di tassatività e certezza delle norme penali sancito dall’art. 25 Cost. Ciò in quanto la reiterazione con cadenza novennale della sanatoria edilizia implicherebbe “non solo la lesione del principio di legalità”, ma lederebbe “soprattutto la fiducia dei cittadini nella effettiva capacità degli organi pubblici di garantire il rispetto dei valori costituzionali coinvolti nella disciplina urbanistica ed edilizia”.

 

9. – L’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 contrasterebbe, altresì, con il principio di eguaglianza.

 

Infatti, la disciplina in esame, riaprendo ed estendendo i termini del condono, introdurrebbe un sistema di sfavore nei confronti di coloro che, rispettando la normativa, non hanno costruito perché privi del titolo abilitativo, dovendo subire però le conseguenze in termini di degrado urbanistico del condono. Tale normativa, in primo luogo, ingiustamente tratterebbe in modo uguale situazioni diverse, ossia quella di chi ha costruito in base ad un titolo legittimo e quella di chi ha costruito abusivamente; in secondo luogo, altrettanto ingiustamente, non consentirebbe “di riportare ad uguaglianza, attraverso la sanzione, chi si è astenuto da comportamenti illeciti e chi illecitamente li ha compiuti”.

 

Ancora, secondo le ricorrenti, sarebbe irrimediabilmente violato il principio di ragionevolezza.

 

Come statuito da questa Corte con la sentenza n. 416 del 1995, la previsione di un provvedimento di condono deve essere considerata costituzionalmente legittima solo a patto di essere del tutto straordinaria ed eccezionale, e di essere giustificata da situazioni altrettanto straordinarie ed eccezionali. Viceversa, una ulteriore reiterazione del condono edilizio farebbe venir meno tali caratteri, e costituirebbe una indubbia violazione dei parametri costituzionali, secondo quanto affermato esplicitamente nella sentenza richiamata.

 

Dunque, per le Regioni ricorrenti, la illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate dipenderebbe già semplicemente – alla luce della citata giurisprudenza costituzionale – dalla circostanza che esse pongono in essere una reiterazione del condono; in secondo luogo, nel caso in questione mancherebbero del tutto quelle circostanze eccezionali che, nelle precedenti situazioni, hanno portato la Corte costituzionale a ritenere giustificata la sanatoria. Inoltre, si afferma che se i precedenti condoni trovavano una giustificazione costituzionale nelle carenze legislative e gestionali delle Regioni e degli enti locali, oggi ciò non sarebbe più vero, poiché le Regioni si sarebbero ormai dotate degli strumenti normativi ed amministrativi necessari al fine di reprimere e sanzionare gli episodi di illegalità, ed avrebbero in concreto intrapreso con incisività l’attività di controllo.

 

Il principio di ragionevolezza, peraltro, secondo la Regione Campania, sarebbe violato anche per il fatto che la normativa introdotta dall’impugnato art. 32 inciderebbe in modo significativo su numerosi principi costituzionali senza però riuscire a perseguire adeguatamente l’obiettivo per il quale essa è stata posta. Ciò sarebbe vero innanzi tutto in relazione all’obiettivo “dichiarato”, desumibile dal comma 2 dell’art. 32, in quanto “non si riesce in alcun modo a comprendere in qual maniera si possa collegare questa terza sanatoria edilizia con una eventuale, già intervenuta, modifica legislativa di settore”; né sarebbe comprensibile “il rapporto tra questa disciplina e la successiva di livello regionale”. La Regione Campania, peraltro, evidenzia come il fine esclusivo della disciplina impugnata sia quello di “recuperare gettito all’erario”: ma anche in relazione a tale fine lo strumento del condono sarebbe del tutto inadeguato – e quindi viziato da irragionevolezza – in quanto non terrebbe conto “degli effetti ulteriori e deleteri” determinati a carico degli enti territoriali, i quali “dovranno far fronte a spese per l’urbanizzazione e il recupero ambientale”. Spese che – si prosegue – solo in modo molto limitato potranno essere coperte dagli oneri di urbanizzazione a carico di coloro che si avvantaggeranno della sanatoria.

 

Quanto detto, peraltro, secondo le ricorrenti, renderebbe palese anche la violazione di altri parametri costituzionali. In particolare, risulterebbero violati il principio di imparzialità dei pubblici poteri, nonché il principio di buon andamento dell’amministrazione. Tale principio, infatti, sarebbe frustrato dalla inanità degli sforzi compiuti dalle amministrazioni locali al fine di reprimere l’abusivismo.

 

10. – Altro parametro che secondo le ricorrenti sarebbe violato dalla normativa oggetto del giudizio è l’art. 9 Cost., nonché, secondo la Regione Campania, la competenza regionale in tema di valorizzazione dei beni ambientali e, secondo la Regione Emilia, il principio costituzionale di indisponibilità dei valori costituzionalmente tutelati. Tra questi rientrerebbe sicuramente “l’ordinato assetto del territorio”, il quale non potrebbe “essere scambiato con valori puramente finanziari”, come invece avviene nel caso della sanatoria edilizia. Da questo punto di vista, ben diversa sarebbe la situazione del condono edilizio rispetto al condono fiscale, dal momento che in quest’ultimo caso lo Stato “rinuncia ad una pretesa economica in vista di una diversa, e sia pure più ridotta, pretesa economica: sicché la questione acquista, nel suo oggetto specifico, un connotato quasi di transazione ordinaria in relazione ad una lite patrimoniale”. Viceversa, il condono edilizio finirebbe per sacrificare ad un interesse economico “beni e interessi indisponibili e costituzionalmente tutelati della comunità”.

 

Similmente, la Regione Marche censura la norma impugnata anche con riferimento agli artt. 9, 32, 41 e 42 Cost., dal momento che la sanatoria prevista dalla disciplina impugnata inciderebbe negativamente nei confronti di valori costituzionali che tutti i livelli di governo – e in particolare le Regioni – hanno il diritto-dovere di tutelare nella loro effettività: i valori paesistico-ambientali, il valore della salute, il valore del corretto e ordinato svolgimento dell’attività imprenditoriale in materia edilizia, la tutela del diritto di proprietà.

 

In relazione a tali parametri costituzionali, nonché a tutti i parametri invocati che risultino diversi da quelli che specificamente presiedono al riparto di competenze tra Stato e Regioni, le ricorrenti sostengono la sussistenza del proprio interesse a dedurne in giudizio la violazione. Ciò in quanto i vizi di costituzionalità derivanti da tali violazioni si tradurrebbero automaticamente in un danno alla sfera di competenza delle Regioni, che vedrebbero irrimediabilmente frustrata la propria attività legislativa ed amministrativa di governo del territorio, dal momento che gli abusi futuri potrebbero sfuggire alle sanzioni amministrative risultando così incentivati.

 

11. – Ancora, a risultare violato – a giudizio delle Regioni – sarebbe il principio di leale collaborazione tra i diversi livelli di governo, dal momento che né in sede di adozione del decreto-legge, né in sede di adozione del disegno di legge di conversione, le autonomie regionali sono state consultate attraverso la Conferenza Stato-Regioni. In particolare, sarebbe stato contraddetto l’art. 2 del d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione e ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali), il quale prevede che la Conferenza debba obbligatoriamente essere sentita “in ordine agli schemi di disegni di legge e di decreto legislativo o di regolamento del Governo nelle materie di competenza delle regioni o delle province autonome di Trento e di Bolzano”. D’altra parte, il contrasto con le prescrizioni del d.lgs. n. 281 del 1997 sarebbe evidente anche ove si reputasse che nel caso in questione la Conferenza non dovesse essere sentita preventivamente, a causa dell’urgenza di provvedere: in situazioni similari, infatti, l’art. 2, comma 5, del citato decreto legislativo prevede la consultazione successiva della Conferenza, e dispone che “il Governo tiene conto dei suoi pareri: a) in sede di esame parlamentare dei disegni di legge o delle leggi di conversione dei decreti-legge”. Quindi, anche in caso di urgenza, il coinvolgimento della Conferenza – secondo le ricorrenti – non sarebbe potuto mancare.

 

Ad ulteriore sostegno delle argomentazioni appena richiamate, la Regione Emilia-Romagna ritiene che dall’art. 11 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) sarebbe desumibile – pur in assenza dell’attivazione della “speciale composizione integrata della Commissione parlamentare per le questioni regionali” in esso prevista – l’esistenza di un principio costituzionale che prescrive “la partecipazione regionale al procedimento legislativo delle leggi statali ordinarie, quando queste intervengono in materia di competenza concorrente”.

 

12. – Secondo la Regione Campania, inoltre, a risultare travolto per effetto della normativa impugnata sarebbe lo stesso giudicato costituzionale; in particolare, sarebbero state violate le sentenze di questa Corte n. 427 del 1995, n. 416 del 1995, n. 231 del 1993, n. 369 del 1988 e n. 302 del 1988, concernenti i precedenti condoni edilizi. Con tali decisioni, infatti, il giudice costituzionale avrebbe chiaramente riconosciuto al regime di sanatoria carattere episodico, delimitandolo temporalmente, pena la illegittimità costituzionale.

 

13. – Le Regioni ricorrenti, in subordine, per il caso in cui le censure appena illustrate fossero ritenute infondate, prospettano alcune doglianze rivolte nei confronti di specifiche disposizioni dell’art. 32 impugnato.

 

In particolare, viene dedotta anzitutto l’illegittimità costituzionale del comma 26, lettera a), nella parte in cui subordina alla legge regionale la sanabilità degli abusi minori in zone non vincolate, mentre sottrae alla decisione regionale gli abusi maggiori e gli abusi minori in zone vincolate. Ciò determinerebbe la evidente violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, nonché, in via mediata, degli artt. 117 e 118 Cost.

 

Ancora, incostituzionale sarebbe il comma 25, “in quanto non eccettua dal condono gli abusi per i quali il procedimento sanzionatorio sia già iniziato” (così la Regione Emilia-Romagna). La illegittimità costituzionale dipenderebbe dal fatto che in casi di questo tipo la possibilità del condono risulterebbe “ancor più irragionevole”, in quanto il condono edilizio non porterebbe nessun vantaggio al pubblico interesse, né – ovviamente – in termini di “uscita allo scoperto” di situazioni di illegalità, né in termini economici.

 

Incostituzionali sarebbero, altresì, i commi 3, 25, 26, lettera a), 28, 32, 35, lettere b) e c), 37, 38 e 40, nonché l’Allegato 1, in quanto – con disciplina dettagliata ed autoapplicativa – stabiliscono le modalità, i termini e le procedure relative al condono edilizio, così violando l’art. 117 Cost. La competenza dello Stato a dettare norme non cedevoli non sarebbe giustificata, nel caso di specie, né dall’art. 117, secondo comma, Cost., né dall’attrazione di funzioni amministrative allo Stato in base all’art. 118, Cost.

 

Le Regioni censurano inoltre i commi 25 e 35 per violazione del principio di ragionevolezza, dal momento che, estendendo il condono agli abusi compiuti sino a sei mesi prima dell’entrata in vigore del decreto-legge impugnato, renderebbero particolarmente difficile distinguere le opere ultimate da quelle non ultimate, complicando notevolmente l’attività di vigilanza amministrativa. Peraltro, tale norma – collegata al disposto del comma 35 in forza del quale è sufficiente, ove l’opera abusiva non superi i 450 metri cubi, una autocertificazione per la prova dello “stato dei lavori” – consentirebbe di far passare per già costruite opere in corso di costruzione. Il comma 25 non andrebbe esente da censure di incostituzionalità anche da un differente punto di vista: esso sarebbe infatti lesivo degli artt. 3, 9, 97, 117 e 118 Cost., nella parte in cui prevede un limite di volume (750 metri cubi) per ogni singola richiesta di sanatoria, senza però precisare che non sono ammesse più richieste riferite alla medesima area.

 

Costituzionalmente illegittimo sarebbe inoltre il comma 37, nella parte in cui prevede la formazione del silenzio-assenso nei confronti delle istanze di sanatoria, dal momento che sarebbe palese la irragionevolezza di una norma che sana gli abusi in virtù del solo decorso del tempo. La norma, inoltre, contrasterebbe con gli artt. 9, 97, 117 e 118 Cost. (e con gli artt. 4 e 8 dello Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), perché renderebbe eventuale il controllo dei Comuni sull’ammissibilità delle domande di condono, ledendo altresì le competenze regionali in materia di governo del territorio.

 

Secondo le ricorrenti, andrebbero dichiarati incostituzionali anche i commi da 14 a 20 ed il comma 24, i quali disciplinano la sanatoria degli abusi commessi sulle aree di proprietà statale, facendola dipendere unicamente dalla volontà e dalla decisione dello Stato proprietario, senza dare “alcuna rilevanza a quanto in merito stabilito dal legislatore regionale, cui, invece, l’art. 117 Cost. affida la competenza a disciplinare l’ammissibilità urbanistica degli interventi anche sulle aree di proprietà dello Stato” (in questi termini la Regione Toscana). Le norme in parola violerebbero altresì gli artt. 118 e 119 Cost., perché la decisione sulla ammissibilità della sanatoria verrebbe riservata al soggetto proprietario dell’area, senza possibilità di contraddittorio con gli enti locali interessati e in assenza di una previa intesa con le Regioni.

 

Specifiche censure sono rivolte anche nei confronti del comma 6, il quale affida al Ministro delle infrastrutture l’individuazione degli interventi da ammettere a finanziamento tra quelli di riqualificazione urbanistica attivati dalle Regioni previo parere della Conferenza unificata. Tale disposizione sarebbe incostituzionale, nella prospettazione delle ricorrenti, perché in una materia regionale determinerebbe la avocazione di funzioni amministrative al centro senza prevedere, come richiesto dalla sentenza n. 303 del 2003, l’intesa con la Regione interessata; essa contrasterebbe, peraltro, anche con l’art. 119 Cost., il quale non ammette finanziamenti vincolati alla realizzazione di interventi scelti dal Ministro. Incostituzionali, infine, sarebbero i commi 9 e 10, per ragioni analoghe a quelle appena illustrate.

 

14. – Le Regioni Campania, Marche, Toscana ed Emilia-Romagna (quest’ultima con atto separato, notificato il 9 febbraio 2004 e depositato il 10 febbraio 2004) hanno formulato istanza di sospensione in via cautelare dell’atto impugnato, ritenendo sussistenti le condizioni previste dall’art. 35 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), come sostituito dall’art. 9 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3). In particolare, vi sarebbe il rischio di un pregiudizio irreparabile all’interesse pubblico, in quanto in caso contrario si dovrebbe dar luogo alla attivazione delle procedure di condono da parte dei Comuni, con notevoli spese per far fronte all’organizzazione dell’attività. Peraltro, ulteriore danno deriverebbe dal fatto che – come insegnerebbe la passata esperienza – provvedimenti legislativi del tipo di quello impugnato, “producendo nella società una notevole aspettativa di sanatoria, inevitabilmente [determinerebbero] un aumento vertiginoso […] dei fenomeni di abusivismo” (così la Regione Campania). Tutto ciò quando, invece, l’eventuale sospensione dell’efficacia dell’atto impugnato non comporterebbe alcuna conseguenza dannosa.

 

15. – In tutti i giudizi si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, contestando i singoli motivi che i ricorsi pongono a fondamento della richiesta declaratoria di incostituzionalità.

 

Infondata sarebbe la violazione dell’art. 77 Cost., dal momento che la sussistenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza formerebbe oggetto di una valutazione “rimessa a ciascuna Camera”, e comunque la loro eventuale mancanza sarebbe destinata ad essere sanata per effetto della conversione in legge. In ogni caso, tale doglianza sarebbe inammissibile in quanto non sarebbe ravvisabile alcun interesse delle Regioni a farla valere. Peraltro, la situazione di straordinaria necessità ed urgenza sarebbe in concreto ravvisabile nella finalità dell’art. 32 in esame di “supportare la manovra annuale finanziaria e di bilancio attraverso gli introiti del condono edilizio”.

 

Quanto alle censure concernenti la presunta violazione del riparto di competenze legislative costituzionalmente garantito, l’Avvocatura dello Stato ritiene che il titolo abilitativo dell’intervento statale, nel caso de quo, sarebbe ravvisabile nell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., riguardante l’ordinamento penale, nonché, “seppur indirettamente”, nella competenza legislativa statale in materia di ordinamento civile. Ciò in quanto la sanatoria edilizia sarebbe “rilevante in occasione delle compravendite immobiliari”. Ancora, titolo di intervento statale sarebbe ravvisabile nell’art. 81 Cost. e nell’art. 119 Cost., in quanto “essenziale dovere costituzionale dello Stato è assicurare a se stesso e agli enti a finanza derivata le risorse occorrenti”.

 

Del resto, secondo l’Avvocatura, sarebbe infondata la pretesa di alcune delle ricorrenti di ricondurre la normativa in esame all’edilizia o all’urbanistica, e dunque al quarto comma dell’art. 117 Cost. Se peraltro si volesse considerare l’art. 32 in questione insistente nella materia “governo del territorio”, egualmente le doglianze regionali dovrebbero essere respinte, giacché la disciplina dei titoli abilitativi è stata riconosciuta spettare allo Stato dalla sentenza n. 303 del 2003, in quanto relativa alla competenza statale a dettare i principi fondamentali della materia.

 

La normativa in esame, inoltre, sfuggirebbe anche alle censure che ne denunciano la natura “di dettaglio” anziché “di principio”, poiché “esigenze tecnico-giuridiche impongono una normazione esaustiva, self executing, unitaria per l’intero territorio nazionale, e […] idonea a confluire nell’ordinamento penale”.

 

La pretesa lesione dell’art. 9 Cost. sarebbe anch’essa infondata, dal momento che la normativa in esame conterrebbe l’indicazione di una serie di tipi di opere abusive non suscettibili di essere sanate, proprio in considerazione del valore in tale articolo cristallizzato.

 

Le censure concernenti gli artt. 32, 41 e 97 Cost., mosse dalla Regione Marche, sarebbero inammissibili, in quanto non argomentate. Analogo discorso dovrebbe farsi per la dedotta violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., il quale peraltro opererebbe “a senso unico”, posto che esso non escluderebbe la costituzionalità di norme che eliminino la rilevanza penale di determinati fatti.

 

In relazione al preteso contrasto con il principio di eguaglianza, l’Avvocatura osserva che, al fine di poter ritenere sussistente la violazione dell’art. 3 Cost., è necessario che la comparazione compiuta nella relativa doglianza sia “non diacronica” e sia possibile “tra situazioni uguali o almeno confrontabili”: cosa questa che non accadrebbe nel caso di specie.

 

Quanto alle spese per l’urbanizzazione cui dovrebbero far fronte gli enti territoriali, l’Avvocatura osserva, in primo luogo, che si tratterebbe di una doglianza “attinente alla convenienza politico-economica”, e quindi inammissibile; in secondo luogo, tale censura sarebbe comunque infondata, in quanto le Regioni potrebbero far fronte a tali spese aumentando fino al 100 per cento gli oneri di concessione relativi alle opere abusive oggetto di sanatoria. Del resto, secondo la difesa erariale, sarebbe inammissibile la doglianza in questione nella parte in cui intendesse far valere un preteso squilibrio finanziario degli enti locali, non rappresentati dalle Regioni.

 

Quanto alla coerenza del condono con il disposto della sentenza n. 416 del 1995, l’Avvocatura dello Stato osserva come “eccezionalità e straordinarietà si ripropongono ora, a distanza di dieci anni, ove si consideri la persistenza del fenomeno dell’abusivismo, con conseguente indefettibile esigenza di recupero della legalità”.

 

La richiesta di sospensione avanzata dalle ricorrenti, secondo l’Avvocatura, sarebbe del tutto inammissibile, in quanto l’atto impugnato “non è un provvedimento amministrativo”, e comunque non sussisterebbero le condizioni previste dall’art. 35 della legge n. 87 del 1953, come sostituito dall’art. 9 della legge n. 131 del 2003.

 

16. – Con atto depositato il 27 novembre 2003 il Comune di Salerno è intervenuto ad adiuvandum nel giudizio concernente il decreto-legge n. 269 del 2003 promosso con il ricorso della Regione Campania. Il Comune espone innanzi tutto di essere dotato di competenze costituzionalmente garantite – in virtù dell’art. 118 Cost., così come riformato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 – inerenti l’esercizio di tutte le funzioni amministrative non espressamente conferite ad enti “superiori”. Tra tali funzioni rientrerebbe anche quella di “pianificazione del territorio”, a mezzo del piano regolatore generale. Ciò basta al Comune interveniente per affermare che “l’ennesimo condono edilizio […] pregiudica […] gli interessi pubblici primari perseguiti” dallo stesso in ordine “alla tutela dell’ambiente, del paesaggio e del corretto sviluppo del territorio”.

 

Il Comune di Salerno propone poi argomentazioni a sostegno delle censure prospettate dalla Regione Campania, per vero spesso coincidenti con quelle contenute nel ricorso di quest’ultima.

 

17. – Hanno presentato atto di intervento ad opponendum, depositato per entrambi in data 3 marzo 2004, il Comune di Ischia e il Comune di Lacco Ameno, anch’essi nel giudizio introdotto con il ricorso della Regione Campania. Tali Comuni, con deduzioni sostanzialmente identiche, dopo aver affermato la propria legittimazione ad intervenire in virtù di una “posizione individualizzata” in relazione alla normativa impugnata, nonché in virtù della qualità di “destinatari” di quest’ultima, argomentano nel senso della declaratoria di infondatezza del ricorso, “previa reiezione” dell’istanza di sospensione cautelare.

 

18. – Con atti depositati rispettivamente il 3 febbraio 2004 e 13 gennaio 2004 il CODACONS – Coordinamento delle Associazioni e dei Comitati per la tutela dei consumatori e dell’ambiente è intervenuto ad adiuvandum nei giudizi aventi ad oggetto il d.l. n. 269 del 2003 promossi con i ricorsi della Regione Emilia-Romagna e della Regione Toscana.

 

Quanto alla propria legittimazione ad intervenire in giudizio, il CODACONS ritiene che questa derivi, da un lato, dalla circostanza secondo la quale il perseguimento di obiettivi di tutela ambientale e sanitaria è previsto dal proprio statuto; dall’altro, dal fatto che svariati atti normativi riconoscono allo stesso CODACONS la legittimazione ad agire in giudizio a tutela degli interessi diffusi di rango costituzionale dei quali è portatore.

 

Nel merito, il CODACONS espone argomentazioni a sostegno delle doglianze proposte dalla Regione Emilia-Romagna, tali peraltro da coincidere spesso con quelle contenute nel ricorso di quest’ultima.

 

19. – Anche il Comune di Roma, con atto depositato il 2 febbraio 2004, è intervenuto ad adiuvandum nel giudizio promosso dalla Regione Umbria avverso il d.l. n. 269 del 2003, chiedendo l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate nel ricorso.

 

Preliminarmente, a sostegno della ammissibilità del proprio intervento, il Comune sostiene che le competenze normative riconosciute ai Comuni dagli artt. 117, sesto comma, e 118 Cost. renderebbero gli enti locali titolari di interessi costituzionalmente qualificati che li legittimerebbero ad agire avanti alla Corte a tutela di tali interessi.

 

Nel merito, l’interveniente ritiene che un nuovo ed esteso condono incida negativamente sulle capacità normative e sulle funzioni amministrative dell’ente locale, azzerandone il ruolo, oltre ad “alterare” il principio della legislazione concorrente.

 

20. – La Regione Marche (con ricorso notificato il 21 gennaio 2004, depositato il 26 gennaio 2004 e iscritto al reg. ricorsi n. 8 del 2004), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale anche nei confronti della legge 24 novembre 2003, n. 326 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, recante disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici); in particolare, la ricorrente impugna l’art. 32 del decreto-legge, così come convertito dalla legge sopra indicata, nel suo complesso, nonché, più specificamente, i commi 1, 2, 3, 5, 6, 9, 10, 13, 14-20; 24-41.

 

La Regione Toscana (con ricorso notificato il 21 gennaio 2004, depositato il 29 gennaio 2004 e iscritto al reg. ricorsi n. 10 del 2004), ha impugnato i commi 1, 3, 5, 14-20; 25-43 e 49-ter, mentre la Regione Emilia-Romagna (con ricorso notificato il 23 gennaio 2004, depositato il 29 gennaio 2004 e iscritto al reg. ricorsi n. 13 del 2004) ha impugnato i commi 1, 2, 3, 25, 26, lettera a), 28, 32, 35, 37, 38, 40, e l’Allegato 1.

 

La Regione Campania (con ricorso notificato il 22 gennaio 2004, depositato il 30 gennaio 2004 e iscritto al reg. ricorsi n. 14 del 2004) ha invece sollevato questioni di legittimità costituzionale sia nei confronti dell’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, così come convertito dalla legge n. 326 del 2003, nel suo complesso, sia specificamente con riguardo ai commi 1, 2, 3, 5, 14-20, 25-50.

 

Peraltro, la Regione Toscana ha proposto impugnazione anche dell’art. 14 del decreto-legge in questione, così come risultante dalla conversione in legge, il quale introduce modifiche in tema di servizi pubblici locali di rilevanza economica; la Regione Emilia-Romagna contesta la legittimità costituzionale anche dell’art. 21 del medesimo atto normativo (concernente l’assegno per ogni secondo figlio e l’incremento del fondo nazionale politiche sociali), nonché dell’art. 32, commi 21 e 22 (sull’aumento dei canoni per le concessioni d’uso del demanio marittimo per finalità turistico-ricreative); la Regione Campania invece coinvolge nell’impugnativa, in ambedue i suoi ricorsi, i commi 21-23 del citato art. 32.

 

Hanno sollevato questione sull’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, nel testo risultante dalla conversione in legge, anche la Regione Lazio (con ricorso notificato il 20 gennaio 2004, depositato il 23 gennaio 2004 e iscritto al reg. ricorsi n. 6 del 2004), la Regione Umbria (con ricorso notificato il 23 gennaio 2004, depositato il 29 gennaio 2004 e iscritto al reg. ricorsi n. 11 del 2004), la Regione Friuli-Venezia Giulia (con ricorso notificato il 23 gennaio 2004, depositato il 29 gennaio 2004 e iscritto al reg. ricorsi n. 12 del 2004) e la Regione Basilicata (con ricorso notificato il 1° dicembre 2003, depositato il 5 dicembre 2003 e iscritto al reg. ricorsi n. 90 del 2003). Da evidenziare, peraltro, che tale ultima Regione ha impugnato congiuntamente sia il decreto-legge che la legge di conversione.

 

In particolare, la Regione Lazio – nel ricorso notificato solo all’Avvocatura dello Stato e non anche al Presidente del Consiglio dei ministri – impugna i commi 1, 2, 3, 9, 14-23; 25, 26, 32-38; 41 e 42 dell’art. 32 così come risultante a seguito della conversione; le Regioni Umbria e Friuli-Venezia Giulia impugnano i commi 1, 2, 3, 4, 25, 26, lettera a), 28, 32, 35, 37, 38, 40 e l’Allegato 1, mentre la Regione Basilicata rivolge le proprie censure in generale nei confronti dell’intero art. 32.

 

21. – Tutti i ricorsi ripropongono sostanzialmente le censure già prospettate nelle impugnazioni dell’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 nel testo originario, tenendo tuttavia conto sia delle modifiche introdotte in sede di conversione, sia della abrogazione – per effetto della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2004) – dei commi 6, 9, 11, e 24.

 

I ricorsi espongono innanzi tutto doglianze di carattere generale, fondate sull’assunto secondo il quale il difetto dei presupposti di necessità ed urgenza – che contraddistingueva, secondo la prospettazione delle ricorrenti, il d.l. n. 269 del 2003 – si estenderebbe, quale vizio in procedendo, anche alla legge di conversione, con conseguente violazione dell’art. 77 Cost.

 

Ancora, secondo la Regione Marche sarebbe violato anche l’art. 79 Cost., in quanto il provvedimento impugnato costituirebbe, nella sostanza, una vera e propria amnistia, adottata senza percorrere le vie del procedimento aggravato previsto dalla citata disposizione costituzionale.

 

Inoltre, secondo le ricorrenti, dalla normativa risultante dalle modifiche operate in sede di conversione e derivanti dalle abrogazioni disposte dalla legge finanziaria per il 2004, emergerebbe chiaramente che sarebbe rimasto soltanto il condono edilizio, mentre sarebbero stati abrogati i fondi per la riqualificazione urbanistica e ambientale, pur ritenuti evidentemente insufficienti dalle Regioni. Ciò renderebbe palese, secondo la Regione Emilia-Romagna, “la irragionevolezza e la scarsa attendibilità del meccanismo congegnato attraverso le varie disposizioni di cui all’art. 32, per realizzare finalità di reale e credibile intento di riqualificazione del territorio”.

 

La Regione Friuli-Venezia Giulia propone argomentazioni sostanzialmente coincidenti con quelle svolte in occasione dell’impugnazione, da parte di questa Regione, del d.l. n. 269 del 2003.

 

La Regione Lazio evidenzia di aver favorito numerose opere di demolizione, nella logica di una inversione di tendenza rispetto al passato. Tali scelte politiche regionali sarebbero tuttavia irrimediabilmente frustrate dalla legge impugnata. La ricorrente, inoltre, sottopone alla Corte ulteriori ragioni per le quali la disciplina in esame dovrebbe essere considerata irragionevole: in particolare, osserva che la modifica dell’art. 32 della legge n. 47 del 1985, ad opera della norma censurata, renderebbe applicabile il condono anche alle pratiche restate inevase sotto l’egida di precedenti condoni, con il risultato di realizzare l’effetto di un «condono ‘open’».

 

Sarebbe violato, secondo tale Regione, anche il principio di eguaglianza. Al riguardo, oltre a proporre le medesime argomentazioni svolte negli altri ricorsi, si evidenzia come tale principio costituzionale verrebbe leso anche dalla perdita di valore degli immobili dei cittadini rispettosi della legge a causa della immissione sul mercato di immobili abusivi, nonché dall’aumento della pressione fiscale a carico dei medesimi cittadini al fine di reperire le risorse finanziarie volte alla realizzazione delle opere di urbanizzazione.

 

22. – Le ricorrenti censurano, inoltre, talune disposizioni modificate in sede di conversione e successivamente abrogate. Così, il comma 6, che, anche dopo la conversione, continuerebbe ad attribuire la competenza al Ministro. Il comma 9, nel testo risultante a seguito della conversione, prevedrebbe l’intesa con la Conferenza unificata, laddove prima disponeva che questa dovesse essere soltanto sentita; tale disposizione, tuttavia – e di qui il persistere della doglianze regionali – prevederebbe comunque che sia data priorità alle aree oggetto di programmi di riqualificazione approvati con decreto del Ministro dei lavori pubblici.

 

Quanto ai commi da 14 a 20 e al comma 24, concernenti la sanatoria in terreni di proprietà statale, nei ricorsi si ripropongono le medesime doglianze già illustrate in precedenza, con la precisazione che il comma 24, modificato in sede di conversione nel senso di prevedere un programma di interventi di riqualificazione delle aree demaniali in relazione al quale era previsto che fosse “sentita” la Conferenza Stato-Regioni, è stato successivamente abrogato dalla legge n. 350 del 2003 (art. 2, comma 70). Comunque, secondo quanto espongono le ricorrenti, sarebbe necessario acquisire non il mero parere, ma l’intesa della Regione interessata.

 

Viene ribadita anche la censura concernente il comma 25, pur modificato in sede di conversione. A seguito di tale modifica, la norma prevede un limite massimo per la costruzione abusiva considerata nel suo complesso pari a 3000 metri cubi. Tale disposizione violerebbe gli artt. 9, 97, 117 e 118 Cost., per la parte in cui non preciserebbe che non sono ammesse più richieste riferite alla medesima area. Poiché tuttavia gli emendamenti – si afferma nel ricorso – potrebbero valere solo pro futuro, le censure sono rivolte al presente comma sia nella sua versione originaria che in quella risultante a seguito della conversione.

 

È inoltre censurato il comma 49-ter, introdotto in sede di conversione. Tale disposizione viene ritenuta costituzionalmente illegittima per violazione degli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., in quanto determinerebbe l’accentramento della competenza concernente le demolizioni in capo al prefetto. La norma – si osserva – non esprimerebbe un principio fondamentale, né del resto sarebbe giustificabile in base ad esigenze unitarie, in quanto l’amministrazione statale non sarebbe adeguata allo svolgimento della funzione di demolizione, non disponendo nemmeno dei dati per effettuare il controllo degli interventi edilizi.

 

23. – Le Regioni Marche, Toscana e Campania, nei rispettivi ricorsi, hanno proposto anche istanza di sospensione dell’atto impugnato ai sensi dell’art. 35 della legge n. 87 del 1953, così come novellato dall’art. 9 della legge n. 131 del 2003, con argomentazioni non dissimili da quelle poste a fondamento dell’istanza di sospensione degli effetti del decreto-legge. La Regione Emilia-Romagna ha proposto istanza di sospensione con il già richiamato atto autonomo, separato dall’atto introduttivo del giudizio e formalmente relativo al ricorso n. 83 del 2003, ma rivolto congiuntamente a decreto-legge e legge di conversione.

 

24. – In tutti i giudizi si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, proponendo argomentazioni non dissimili da quelle, più sopra esposte, contenute negli atti di costituzione nei giudizi aventi per oggetto l’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003.

 

L’Avvocatura dello Stato evidenzia, in aggiunta, come “se la spettanza regionale di alcuni (invero moltissimi) settori costituisse limite alla potestà legislativa del Parlamento nazionale, questo in pratica solo in pochi casi potrebbe deliberare interventi o manovre di politica economica”.

 

In relazione alle doglianze svolte con riguardo ai commi da 14 a 20, l’Avvocatura rileva che la Regione non sarebbe legittimata a ricorrere, in quanto essa pretenderebbe di far valere non una competenza propria, ma, semmai, degli enti locali.

 

Quanto alle censure concernenti il comma 25, l’Avvocatura ritiene che esse prospettino un inammissibile intervento additivo della Corte; e inammissibile sarebbe anche l’intervento additivo richiesto in ordine al comma 37, anche se – si riconosce – tale intervento “potrebbe fugare le addotte preoccupazioni”.

 

Con riferimento al giudizio promosso dalla Regione Lazio, la difesa erariale evidenzia come a suo avviso andrebbe delimitata, in ragione della motivazione offerta nel ricorso, la materia del contendere, escludendo da quest’ultima i commi da 14 a 24 e il comma 41, in quanto ad essi non sarebbe riferita alcuna doglianza.

 

Nel merito, l’Avvocatura dello Stato ritiene innanzi tutto che il “monito” indirizzato al legislatore dalla sentenza n. 416 del 1995 – ed orientato nel senso di vietare una ulteriore reiterazione del condono – non varrebbe ad escludere la legittimità costituzionale della normativa oggetto del giudizio, in quanto, dinanzi ad un abusivismo “di massa” (quale sarebbe quello che ha contraddistinto il periodo successivo alla citata sentenza), il legislatore statale non potrebbe rimanere “indifferente o estraneo”, dovendo viceversa intervenire per necessità “sia di carattere economico […] sia di carattere giuridico”.

 

Quanto alla pretesa violazione dell’art. 3 Cost., e del principio di eguaglianza, nelle difese dell’Avvocatura si evid

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